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MELA MARCIA NEL CESTO DI BIBI

«L’Ortodossia israeliana sta scadendo nella depravazione». A porre la questione, al centro del dibattito della campagna elettorale in corso, non è la solita voce laica degli intellettuali di sinistra, bensì il rabbino Eric H. Yoffie, già presidente dell’Unione per l’ebraismo riformato (URJ) del Nord America. Il quale, in una lunga lettera pubblicata sul quotidiano Haaretz, denuncia l’ascesa del fanatismo della destra kahanista e il pericolo di un loro successo nelle urne. Yoffie si scaglia apertamente contro un approccio politico involutivo e abominevole, che si riconosce in uno dei personaggi più controversi dell’ebraismo contemporaneo: Meir Kahane, rabbino e politico di origine newyorchese. Fomentatore di teorie razziste. Pensatore impregnato da una visione tanto apocalittica quanto vetero fascista, che arrivava a giustificare teologicamente la violenza contro i palestinesi, la supremazia ebraica e l’annessione territoriale della Palestina. Kahane, assassinato brutalmente in una strada di New York, agli inizi degli anni ’90, da un gruppo terroristico jihadista riconducibile alla nascente al-Qaida, era motivato da un profondo spirito anti-comunista e, allo stesso tempo, anti-democratico. Sostenitore della guerra in Vietnam, che considerava una crociata decisiva per frenare l’espansione globale del marxismo: «Il comunismo è per l’anima ebraica ciò che il nazismo era per il corpo». Riteneva, che la vittoria dei marines sul fronte asiatico avrebbe assicurato maggiore sicurezza ad Israele e protetto gli ebrei dai pericoli dell’antisemitismo sovietico. A partire dagli anni ’70 è in Israele, dove darà vita all’esperienza del partito Kach, una minuscola e marginale formazione definitivamente bandita nel 1994. L’eredità tossica lasciata da Kahane, dopo la sua scomparsa, ha tuttavia continuato ad aleggiare come uno spettro nel panorama israeliano, lievitando, nemmeno troppo sotto traccia, tra i settlers, che risiedono all’interno della Linea Verde del ’67. La mostruosa faccia del kahanismo è svelata al mondo il 25 febbraio 1994, quando Baruch Goldstein, devoto seguace alle tesi del maestro, compie nella moschea della Tomba dei Patriarchi ad Hebron il massacro di 29 palestinesi. Tale tragico episodio produsse una reazione critica in particolar modo nelle comunità ebraiche americane, che maturano allora allarmistica apprensione nei confronti della svolta del radicalismo violento, quale forma di redenzione spirituale. Riconoscendo che a causa della troppa tolleranza tale estremismo ideologico aveva trovato uno spazio vuoto dove affrancarsi: «Non fa differenza quanto sia “irrisorio” il numero dei seguaci di Kahane, se le loro dottrine si irradiano. E lo fanno!». Ha scritto il rabbino Hillel Goldberg. La mela marcia è finita dentro al cesto, e se non estirpata l’inquietante prospettiva è che domani questo lato oscuro diventi il riferimento culturale (e politico) sia dell’ala nazional-religiosa sionista che di quella degli ortodossi haredim. Le prossime elezioni politiche del 1 Novembre (le quinte in tre anni e mezzo) stanno riportando in auge questo disegno politico (e culturale). Lavorano alla sua realizzazione due noti politici israeliani, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ciascuno con un proprio partito, Otzama Yehudit (“Potere Ebraico”) e Tkuma (“Rinascita”), ma che fusi insieme (come hanno annunciato in queste ore) nel Religious Zionist Party, sono accreditati nei sondaggi come terza compagine nella prossima Knesset. Il loro elettorato di base è quello della sfera del sionismo (o post-sionismo) religioso, a cui fa riferimento anche il partito nazionalista Yamina, recentemente passato di mano dall’ex premier Naftali Bennett ad Ayelet Shaked, e crollato nei sondaggi (rischiando di essere escluso dal futuro parlamento). Garante dell’avvento dei neo kahanisti non poteva non essere che Benjamin Netanyahu. Quella comunità è il suo alleato naturale, sono veri e propri satelliti che ruotano intorno alla sua orbita e compongono la sua galassia. Sempre disponibile ad accoglierli a braccia aperte perché è sicuro di poterli gestire. Senza poi peritarsi a sbranarli nella forsennata ricerca di raggranellare consensi dell’ultimo minuto. Ciò non toglie che per Bibi siano un’interlocutore privilegiato. Nella sua ideale architettura di potere sono la seconda gamba di un modello politico con al vertice il Likud, e a chiudere il triangolo i partiti tradizionali religiosi: i “custodi sefarditi” di Shas e quelli ashkenazi di Giudaismo Unito nella Torah (UTJ). Nel loro insieme sono il blocco Netanyahu, che sfiora la maggioranza in Israele. In un paese che ha virato decisamente a destra, e che se non fosse per “amicizie profondamente lacerate” (su cui ha influito non poco il carattere di re Bibi) lo vedrebbe al governo, incontrastato. Chi invece non avrebbe gradito di essere minimamente accostato a Kahane era lo storico esponente del Likud Yitzhak Shamir, ogni qual volta il leader di Kach saliva sul podio della Knesset lui lasciava l’aula. Ma Netanyahu non è Shamir. Il più longevo primo ministro di Israele ha collaudato un suo personale tavolo di scambio. Salda la lealtà dei partiti religiosi elargendo poltrone. Mantiene in spalla il fardello di Ben-Gvir e Smotrich, per necessità. Gli adepti kahanisti fino ad oggi non lo hanno preoccupato più di tanto. Le geometrie in campo però sono mutevoli e nel ricatto delle richieste il piatto in gioco potrebbe diventare insostenibile.