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IL PROBLEMA DA RISOLVERE

Le tenebre del terrore hanno avvolto Dacca, tingendola di sangue. Nella notte di un week end di paura, prima lo scontro a fuoco, poi il blitz dei reparti speciali nel ristorante frequentato da internazionali, la scoperta sconvolgente dei cadaveri, tra le vittime numerosi nostri connazionali: un gruppo di amici riuniti a cena. L’ennesima strage terroristica, una mattanza dai macabri rituali. Ostaggi inermi giustiziati crudelmente da un manipolo di giovani invasati islamici. A tirare le fila di questo attentato ancora una volta la sigla scarna dell’Isis, la multinazionale del terrore che recluta adepti in tutti gli angoli del pianeta per una guerra senza quartiere, senza sosta. Non c’è tempo nemmeno per piangere le vittime dell’aeroporto internazionale Kemal Ataturk di Istanbul. È di nuovo lutto in questo interminabile mese del Ramadan. Mentre l’attenzione mediatica e finanziaria era rivolta alla Brexit il brusco risveglio. Il Bangladesh con i suoi milioni di poveri e il Medioriente con i suoi eterni conflitti, cronache di una cruda realtà, un’amara verità: l’aver sottovalutato il nemico, la sua natura e strategia. L’esercito dell’Isis è cresciuto sino a diventare un Califfato, ha conquistato intere regioni e imposto con la violenza il proprio credo di morte. Il mondo è rimasto impassibile e inorridito mentre le sue truppe invadevano e distruggevano le città dell’antica Mesopotamia. Bruciando, decapitando, torturando, violentando. Radendo al suolo i simboli della storia e delle religioni, sfregiando il patrimonio artistico e architettonico universale. A colpi di mazze, con bombe, trattori, le milizie dei nazi-jihadisti si sono scagliati contro la civiltà. Nel nome della loro personale guerra santa alla “decadenza e immoralità contemporanea” hanno massacrato civili inermi, rei di professare altri culti, come quello cristiano o di appartenere a etnie come quella curda. Hanno issato i loro vessilli neri ed esportato il panico nel cuore dell’Europa, in Africa, nella laica Tunisi, nella lontana America di Obama, nel Bosforo del Sultano Erdogan, in Sinai e in Medioriente, nel Golfo del Bengala e nella metropoli asiatica Bangkok. Aeroporti, stazioni ferroviarie, stadi. Teatri, musei, ristoranti, discoteche. Sinagoghe, chiese, templi, sedi di giornali. Atei, ebrei, cristiani, buddisti, induisti, musulmani, comunità gay e turisti. È la lista degli obiettivi sensibili. Contro tutti e tutto. Una organizzazione che agisce localmente ma pensa globalmente, introiti da milioni di dollari come fosse una multinazionale, in grado di giocare spietatamente sugli assetti geopolitici internazionali. Muove indisturbati i suoi assassini tra le dune del deserto o nelle banlieue delle periferie, recluta i kamikaze tra il proletariato delle fabbriche tessili asiatiche o nelle prigioni cecene. Spostando repentinamente il luogo dell’azione, anticipando le misure di difesa, è una macchina criminale che costituisce una minaccia costante. Dimostrando che la linea del fronte con i due eserciti contrapposti è un concetto militare superato. Persino la nozione di trincea è cambiata radicalmente, da luogo fisico a spazio ipertestuale nella rete. Molti analisti ritengono che l’esercito dei miliziani dell’Isis in Siria, Iraq e Libia potrebbe essere spazzato via con una semplice operazione di fanteria o con una campagna di bombardamenti massicci. Probabile. Ma non sufficiente a risolvere il problema nella sua interezza, nella sua dimensione non più circoscrivibile ad una area geografica. L’Isis si è dimostrato un virus resistente che si propaga contagiando la vita quotidiana di tutti, fermiamolo evitando di cadere preda della psicosi collettiva.