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L’OROLOGIO DI PAPA’ E ALTRI RICORDI

Devo con tutta sincerità fare due ringraziamenti agli editori di Giuntina. Il primo è stato farmi scoprire Assaf Gavron (insieme a Keret ed Eshkol Nevo diventati tra i miei autori preferiti). Il secondo, leggere “L’orologio di papà e altri ricordi” di Daniel Vogelmann. Scrittore, traduttore e fondatore della nota casa editrice fiorentina.
Il libro di Vogelmann è una raccolta di racconti brevi. Memorie. Ricordi. Intarsi. Riflessioni. Che finiscono per coinvolgere “compassionevolmente” anche il lettore più distratto. Molto del merito è la scrittura dallo stile pulito, lirico. In un volume che condensa umorismo e morte. Scorrendo le pagine troverete i tratti della comicità raffinata di Woody Allen e l’elegia assordante di Elie Wiesel, in una miscela poetica di toscanità ed ebraismo, agnosticismo e l’ineludibile momento del bilancio. Ovvero, quando si cerca sia interiormente che esternamente di “ordinare” (in ebraico è seder) le cose e dare alla storia la giusta sequenza. Predisponendo il lascito testamentario di una “poesia” al posto di un orologio, rubato. Recitando una preghiera, in forma di richiesta ironica, rivolta al lettore “a sostituire a tempo debito” il punto interrogativo a Daniel Vogelmann (1948 – ?): “visto che io non lo potrò fare”. Dimostrando affetto, la premura nei confronti delle nipoti, i consigli post pandemia e infine la doverosa dedica ad un amico sincero.
“L’orologio di papà e altri ricordi” è un testo che scende in profondità, animandosi di quella dolce-tristezza che si prova nello sfogliare un album di fotografie del passato. Ritratti di famiglia, amici e parenti scomparsi. Richiami toccanti di vita che l’autore non vuole vadano perduti, e per questo fissati in una tela astratta colorata di amarezze, qualche pentimento e forse un po’ di nostalgia: “Quanti bersagli abbiamo mancato nella nostra vita! Ciò detto, non è che voglia, come sempre, discolparmi, ma secondo me la vera colpa va data all’arco che ci è stato fornito”.
Scoprirete il rapporto tormentato con la religione e allo stesso tempo rispettoso, piacevolmente delicato con i ministri o dottori del culto: “Ho chiesto al mio amico rabbino se io, che sono piuttosto agnostico, potevo dire se Dio vuole”. Per poi ribaltare le conclusioni con la domanda: “ma Dio lo vuole?”. Tiferete, non potrete farne a meno, schierandovi dalla parte della ragione (qualsiasi sia essa stata) di Schulim Vogelmann (padre di Daniel), che nel mezzo ad una discussione condominiale risponde ad un spocchioso e provocatorio “Io sono il generale Pinchetti!”, con un definitivo urlo “E io sono stato ad Auschwitz!”. Dove, nemmeno Dio è mai entrato.

Enrico Catassi