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SUMMIT X L’AFRICA

Un nuovo patto tra Europa e Africa è il tema centrale della conferenza tra l’Italia e i 52 Stati africani. In ballo c’è una questione grave come i migranti e sicuramente un seggio permanente all’ONU, ma anche tanta nobiltà d’animo nell’azione che l’Italia, e il uso governo, ripone nella conferenza ministeriale di Roma. Al centro dei lavori la definizione di una strategia per lo sviluppo dell’Africa, una nuova agenda per l’investimento futuro. Una sfida che richiama la responsabilità di tutto l’Occidente. Emergenza povertà, condizioni climatiche avverse, siccità, desertificazione, conflitti etno-tribali e la tempesta finanziaria hanno devastato intere regioni frenando la crescita e di fatto riportando la situazione ai primi anni ’70. Il continente dove è più facile prendersi la malaria e la tubercolosi che il raffreddore, ha anche, il più alto tasso di decessi e diffusione dell’Aids. In Africa HIV significa oltre 25 milioni di casi, il 70% delle infezioni nel mondo secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: il 30% dei bambini che contraggono l’HIV non arriva al primo anno di vita, solo una madre infetta su tre riceve le cure anti-retrovirali che prevengono il passaggio del virus ai neonati. Deficienze strutturali nella sanità africana ma anche sul piano culturale: il dramma dei bambini soldato e i sacrifici umani. Il continente delle disuguaglianze: un sistema sociale, nella quasi totalità degli Stati, compromesso dal livello della corruzione nella burocrazia e dal mal costume che imperversa nei rapporti tra politica e affari. La violazione dei diritti umani attraverso lo strumento della tortura, sintomo che sono ancora troppo impregnati dal modello dittatoriale. L’intreccio delle ingerenze geopolitiche con quelle degli investimenti post-coloniali, ha prodotto la complicità nel sostegno diretto a taluni regimi e nell’abbattimento di altri, com’è avvenuto in Egitto, Libia e Tunisia. Il dilemma di una classe di potere granitica con decenni di gestione personalistica: Musuveni in Uganda, Mugabe in Zimbabwe, Kabila nella Rep. Democratica del Congo, Biya in Camerun, Nguema in Guinea, Deby in Ciad, El-Bashir in Sudan. Stati dove vige il connubio indissolubile tra oligarchia economica e tribalismo politico. La lista dei mali africani, include, purtroppo l’avanzata del radicalismo islamico, da Boko Haram ad Al Qaeda. E infine il dramma del viaggio dei migranti, l’esodo della speranza, dalle bidonville all’Europa, attraverso savana, deserti e il mare. Schiavizzati dai trafficanti, in un cammino di morte e sofferenza. “Bisogna rendere ogni cosa il più semplice possibile, ma non più semplice di ciò che sia possibile!”. Ripeteva Einstein. Il possibile in Africa è la cooperazione internazionale. Storie di successi, come il progetto che in Uganda ha visto impegnato il Ministero degli Affari Esteri in collaborazione con l’Università di Makerere e la Sapienza di Roma. È stato un laboratorio di piccole azioni ma significative, che ha previsto lo studio e la progettazione di attrezzature per la semina, la costruzione di un sito per il compost, l’allestimento di forni artigianali per la produzione di calce, e persino lo studio dello sfruttamento dell’energia eolica per i pozzi d’acqua. Si è trattato di un programma concreto di come si possa favorire lo sviluppo con il know how, secondo un metodo sostenibile, rispettando valori e tradizioni tipiche di una cultura diversa, ancestrale e lontana. In Africa per fare bene la cooperazione c’è bisogno di partire dal basso, resettare schemi precostituiti ed impostare un percorso a ritroso nella storia della civiltà. È questo l’obiettivo dell’Italia e del suo modello di cooperazione ormai collaudato negli anni che ci permette di guardare all’Africa ed essere credibili interlocutori, d’aiuto e di sostegno, ai loro occhi. Mzungu o murungu è una parola diffusa dalla regione dei Grandi Laghi sino alle scogliere di Cape Town, vuol dire bianco. Non vi sentirete mai chiamare così, fatta eccezione per i bambini e per la loro onestà infantile, ma è così che loro ci chiamano e ci vedono. È un termine dispregiativo o almeno non proprio edificante che ci meritiamo se continuiamo ad ignorare che l’Africa e i suoi popoli sono un nostro bene comune.