RESPONSABILITA’ O UMILIAZIONE?

“No all’indifferenza” non si stanca di ripetere Papa Francesco ai fedeli. Questa volta però le parole d’accusa pronunciate dal pontefice durante la Messa nella domenica delle Palme hanno come destinatari le istituzioni europee: “ penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati dei quali tanti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino”. Parole pronunciate a braccio che segnano uno scollamento tra la Santa Sede e l’Ue. Piazza San Pietro non è le stanze di Bruxelles e sul sagrato non si plaude al nuovo piano sui migranti, al contrario la Chiesa di Roma alza la voce, la protesta. Ci aveva già pensato il segretario di stato cardinale Parolin, visitando un campo profughi in Macedonia, a tuonare contro l’accordo Europa-Turchia: “dovremmo sentire umiliante dover chiudere le porte, quasi che il diritto umanitario, conquista faticosa della nostra Europa, non trovi più posto”.

Ragioni e implicazioni invitavano a valutare attentamente le richieste turche. Alla fine tra i 28 leaders europei ha prevalso la linea di Berlino anche sull’accelerazione dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue. Pesanti critiche sono state espresse, in queste ore, da parte di molte Ong che invocano a gran voce maggiore solidarietà e rispetto dei diritti umani: ad alimentare il dibattito l’opzione stilisticamente “burocratica” di Bruxelles del baratto “uno per uno” e un piano che realisticamente deve essere messo alla prova. Così come l’affidabilità e la maturità della Turchia di Erdogan. Intanto dalla Grecia arriva la notizia di altri sbarchi e soprattutto che Atene non è assolutamente pronta a rinviare in Turchia i migranti. Partenza con il piede sbagliato che evidenzia, ad ora, l’impossibilità europea ad offrire una soluzione umanitaria all’emergenza.

In cinque anni di guerra civile la Siria ha originato una massa di rifugiati impressionante, oltre quattro milioni sparsi lungo tutto i confini dei paesi del Mediterraneo. Un flusso continuo che si è riversato, in gran parte, negli stati confinanti: Turchia, Libano e Giordania. Circa il 4% dei rifugiati siriani invece ha intrapreso il viaggio verso l’Europa. Molti sono oggi accampati nelle tendopoli dei campi profughi, il resto ha scelto le periferie delle città del Medioriente, da Amman a Beirut. Dove illegalmente e pagati poco trovano lavoro come bassa manovalanza nel settore manifatturiero, privati di assistenza e senza l’aiuto internazionale. Marginalizzati e sfruttati. In contesti socio-abitativi insostenibili. La richiesta più volte espressa dall’ONU di fare il possibile per integrare i rifugiati nella società turca, libanese e giordana non ha ottenuto esito favorevole. Respinta da parte dei tre governi che hanno obiettato forti resistenze, esprimendo un giudizio caustico: i rifugiati sono un elemento di pericolosità per essere assorbiti, in contesti particolarmente fragili alle turbolenze etniche. Secondo le ultime stime sono 60 milioni nel mondo gli sfollati, uno su sei è siriano. Tra loro una larga presenza di giovani, istruiti e con specifiche competenze tecniche, una generazione intera. Non una minaccia alla sicurezza internazionale ma un nuovo potenziale mercato del lavoro in grado di generare opportunità e positive ricadute economiche, come accadde per i migranti europei alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per l’Unione Europea la crisi di Damasco è un bruciante fallimento su tutti i fronti, dalla gestione dei rifugiati alla stabilizzazione della regione. Il volume di persone che il persistere ancora per anni della crisi siriana potenzialmente potrebbe “sparpagliare” fuori dai suoi confini, indirizzandoli verso il Vecchio Continente, è considerevole. Il “panico e la paura” di veder arrivare una marea umana hanno convinto gli stati europei ad approvare il pacchetto di misure fortemente voluto da Erdogan, nell’ottica che la Turchia possa tamponare l’esodo dei migranti. Peccato che potrebbe, invece, continuare a bombardare i curdi.

ALLA VIGILIA DI UNA GUERRA BARBARESCA

Il dibattito sull’intervento in Libia continua ad essere molto acceso, tra Stati pronti ad intervenire ed altri più prudenti. Caduta la speranza di un esecutivo di unità nazionale a guida Al Sarraj, per l’ostruzione del governo di salvezza di Tripoli, il ruolo che sarà chiamata a svolgere l’Italia sarà sicuramente di primo piano, sono molti i nostri interessi anche economici e troppo vicine le coste libiche per restare “indifferenti”. Ecco perché dobbiamo saper leggere e bene le parole che il presidente egiziano Al Sisi ha rilasciato in queste ore dalle pagine di La Repubblica: “Se le istituzioni vengono distrutte, per ricostruirle occorre molto tempo e sforzi significativi. Questa è l’origine delle nostre grandi paure riguardo alla Libia: più tardi agiamo, più rischi si generano. Dobbiamo agire in fretta e difendere la stabilità di tutti i paesi che non sono ancora caduti nel caos, per questo ci vuole una strategia globale che non riguardi solo la Libia ma affronti i problemi presenti in tutta la regione. Problemi che poi possono trasformarsi in minacce alla sicurezza pure in Europa.” Un messaggio al nostro paese ma sopratutto un monito alla strategia che vorrebbe mettere in campo il Pentagono: “è molto importante che ogni iniziativa italiana, europea o internazionale avvenga su richiesta libica e sotto il mandato delle Nazioni Unite e della Lega Araba”. In questo quadro geopolitico è opportuno ricordare quello che accadde nel 1803 quando, uno squadrone navale della marina degli Stati Uniti, al comando del Commodoro Edward Preble, prese il largo da Boston alla volta di Malta. Era la prima volta che vascelli militari americani portavano la guerra lontano dalle coste atlantiche, nel cuore del Mediterraneo. La missione, imposta dal presidente Thomas Jefferson, prevedeva una “punizione” all’arroganza degli stati barbareschi. Le ragioni del conflitto erano puramente economiche: l’America rifiutava di pagare il tributo per il passaggio delle merci ai locali pascià, come era uso fare. Per l’ex colonia il volume di affari con gli stati meridionali europei era andato incrementandosi negli anni, ma le navi mercantili battenti bandiera a stelle e strisce avevano perso la protezione britannica prima e poi quella francese, trovandosi inermi alle scorrerie dei pirati e con pesanti perdite negli investimenti. I nemici, in quel caso, non erano solo le navi della tirannica Londra ma anche quelle delle città di Algeri, Tripoli e Tunisi. Le tre signorie barbaresche nei cui porti ormeggiavano le potenti flotte corsare che imperversavano per il “Mare Nostrum”. La prima guerra tra i pirati musulmani e gli yankees protestanti proseguì a fasi alterne. Nel maggio del 1805 il conflitto ebbe un appendice sulla terra ferma con la conquista della città di Derna da parte di un manipolo di uomini del corpo dei marines, qualche centinaio di mercenari greci e alcune tribù della Cirenaica in rivolta contro il potere del pascià di Tripoli. Il piccolo e variegato esercito, compì una marcia epica attraversando il deserto del Sahara sino alle mura della città portuale libica. Quella fortunata campagna terrestre condizionò l’esito del conflitto, convincendo le autorità di Tripoli ad accettare un repentino cessate il fuoco. Oggi Derna è sotto il controllo dell’esercito del Califfato e la Libia è nel caos di una guerra civile senza fine, con scenari in continua evoluzione, sollecitati da interferenze internazionali (USA, Francia e GB) e regionali: Turchia, Egitto, Qatar, Algeria, Niger e Marocco, ciascuno con i propri interessi, completano lo scacchiere. La Libia in fondo è una invenzione geografica del colonialismo italiano, uno stato costituito da tre realtà molto, troppo, diverse e contrastanti per trovare un equilibrio duraturo: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan corrono su binari divergenti culturalmente, politicamente e anche militarmente. La nazione libica al momento non esiste più, per ricomporre la cartina smembrata di questo paese serve altro che una guerra barbaresca. Ci vuole prima di tutto una bandiera, quella dell’ONU. E poi tanta fortuna.

LO SCHIAFFO DI ERDOGAN

Nel vertice di Bruxelles l’Unione Europea e la Turchia hanno trovato un accordo generale, ma solo nei principi, sul piano per alleviare la crisi dei migranti. Forti perplessità sono state espresse dall’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), che ravvede violazioni al diritto internazionale, e la decisione finale è stata posticipata al 17 marzo a causa dei nuovi diktat presentati da Ankara. Il governo presieduto da Ahmet Davutoglu ha alzato l’asticella delle richieste, una prova di forza: costi per il rientro dei migranti irregolari in suolo turco a spese degli europei, per ogni siriano riammesso un’altro profugo smistato in un paese dell’Unione. Inoltre l’Europa dovrà erogare altri 3 miliardi oltre ai 3 stanziati per il fondo rifugiati. Libera circolazione per i cittadini turchi, sollevando l’obbligo di visto e accelerare i negoziati per l’ingresso della Turchia in Europa. L’ultimo punto, uno schiaffo all’Europa, è il più difficile da digerire per le ripetute inadempienze sui diritti umani e la libertà di stampa. In ultimo il caso del giornale Zamana la cui linea editoriale è stata “ammorbidita” con l’uso della polizia. La Turchia, a lungo fedele alleato degli Stati Uniti e membro strategico della NATO, ha svolto un ruolo fondamentale e delicato nella difesa dell’Europa e del Medio Oriente sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Teatro del conflitto della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica ieri e della guerra civile siriana con l’ingerenza Russa oggi. Una potenza con carattere deterrente in grado di frenare qualsiasi mira espansionistica in Medioriente. La presenza della Turchia nella NATO è fondata su un principio di reciprocità: la Turchia mette a disposizione le strutture logistiche nel suo territorio, mentre il blocco degli alleati occidentali fornisce tecnologie e assistenza militare ed economica. Il patto di ferro è andato scricchiolando con l’aggravarsi dello scenario siriano e per l’impegno bellico di Ankara in Siria: attualmente l’esercito turco ha aperti due fronti di guerra. Ha trasformato le città curde nel sud-est della Turchia in zone militarizzate, nello sforzo di rimuovere i militanti indipendentisti curdi presenti in quella regione. E ha lanciato attacchi con intensivi bombardamenti contro le forze curde nel nord della Siria. La lotta all’eterno nemico curdo ha convinto Ankara ad intavolare segrete, nemmeno troppo, alleanze con gruppi fondamentalisti islamici. È di pochi giorni fa la pubblicazione di un documento ufficiale, la cui autenticità non è ancora stata tuttavia riscontrata, che dimostra il sostegno della Turchia al transito dei foreign fighter. Il ministero degli interni avrebbe fornito le disposizioni per l’appoggio logistico ai jihadisti ceceni e tunisini di Jabhat al-Nusra, da utilizzare in chiave anti curda in territorio siriano. La denuncia dei legami con l’Isis ha provocato in questi mesi non poche grane al governo turco che ha risposto alle critiche internazionali con censure alla stampa interna: il direttore Can Dundar e il caporedattore Erdem Gul del quotidiano Cumhuriyet sono sotto processo per aver pubblicato fotografie di convogli mentre trasportano, probabilmente, armi dalla Turchia ai jihadisti. I due giornalisti rischiano la pena dell’ergastolo. Nella “classifica” sulla libertà di stampa, stilata da reporter senza frontiere nel 2015 in 180 paesi, la Turchia è al 149° posto. Le organizzazioni non governative denunciano che più di 30 giornalisti sono attualmente detenuti in cella, giornalisti terroristi l’accusa. Nelle elezioni del 2002 molti analisti plaudirono alla pluralità partitica presente nello scenario turco, espressione, si pensava, di una transizione democratica. L’ascesa di Erdogan e del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo Islamico-conservatore (AKP) chiudeva il lungo periodo kemalista. L’AKP smantellò il sistema di controllo del potere dell’esercito, introducendo normative atte a ridimensionare l’influenza politica della gerarchia militare. Ebbene, quello che pareva un processo di democratizzazione e civiltà oggi merita attenta riflessione prima di tutto di quella Europa che deve decidere l’ingresso della Turchia nella sua Comunità.

IN LIBIA

Il rapimento in Libia dei quattro operai dell’impresa emiliana Bonatti, avvenuto sette mesi fa, si è concluso in meno di 24 ore con sorti diverse. Due operai sono vivi e liberi, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, sofferenti tornano in Italia con barbe lunghe e visi scavati dalla stanchezza. Due lavoratori, invece, hanno trovato la morte nella costa africana del Sahel, Salvatore Failla e Fausto Piano, uccisi in circostanze da chiarire, per loro le drawstring bags, sacchi dalla lunga cerniera nera accompagneranno il loro ultimo viaggio di rientro a casa. Due psicologicamente devastati, due sacrificati dalla guerra. Per le famiglie e gli amici di Salvatore e Fausto, per noi tutti, la fine tragica di una lunga speranza, mentre per i parenti degli altri due meccanici il risveglio da un incubo. Poi le emozioni passano e resta la realtà, il dramma e la storia. Una storia che, dolenti o nolenti, ci porta nel grande teatro di un mondo difficile: attraversato dalla violenza più brutale, sconvolto da ideologie perverse. E alle quali siamo chiamati a dare delle risposte nel nome della ragionevolezza e della prudenza, offrendo soluzioni che vadano oltre l’uso della forza. Non è con la guerra che si risolve una questione delicata come quella libica, ma nemmeno fregandosene e rinunciando a prendere dei rischi, in termini di vite umane, oramai ineludibili. Evitando, tuttavia, di commettere errori madornali, come fece il colonialismo. Allora, l’esperienza italiana in Libia rimase poco più di un abbozzo e la Seconda Guerra Mondiale rese giustizia all’occupazione, ai massacri dei civili. La conquista avvenne con una guerra contro la Turchia, correva l’anno 1911, ma il successivo controllo del territorio non fu una passeggiata e terminò negli anni ’30: un conto era occupare le città altro conquistare le zone interne. L’entroterra venne espugnato durante il fascismo che ne fece un obiettivo strategico del regime. La resistenza libica fu tenace ma poco articolata mentre, il carattere del colonialismo italiano fu particolarmente duro e repressivo. L’avventura italiana sulle coste del nord d’Africa si concluse definitivamente con l’espulsione dei nostri connazionali per mano di Gheddafi, quando prese il potere nel ’70. L’operazione ideologica e propagandistica del colonnello, interlocutore complesso ma storicamente affidabile per l’Italia, rifletteva e giocava sull’anti italianità, mito fondante della storia del nazionalismo libico. L’odio atavico e diffuso nei confronti dell’Italia è una costante della Libia contemporanea, un elemento da non sottovalutare in quel particolare scenario. La condizione minima per attivare un intervento militare è un coordinamento sul posto e la cooperazione con la controparte. Per non urtare la “sensibilità” del popolo libico e peggiorare la situazione. La crisi libica, seppur indotta o accelerata da forze esterne, nasce da una rivolta contro un governo che aveva perso il senso della realtà, imposto una casta di potere che non lasciava spazio ad un ricambio generazionale. Paradossalmente con la fine dell’embargo internazionale la cesura sociale si è manifestata sempre più apertamente e le antiche rivalità tra la regione occidentale della Tripolitania e quella orientale Cirenaica sono esplose nuovamente, originando l’anarchia tribale attuale. Frantumato il fragile equilibrio sociale costruito da Gheddafi si è aperta una fase di lotta di tutti contro tutti, dagli esiti ancora in parte imprevedibili e nefasti: Egitto, Turchia, Qatar, Emirati Arabi e Marocco rivestono un ruolo nello scacchiere libico appoggiando questo o quel Governo e dove anche l’Isis allarga la propria sfera d’azione e influenza. Dalle ceneri di questa guerra civile non è ancora sorta l’istituzione in grado di garantire ordine al caos imperante. E questo rimane il vero obiettivo a cui la comunità internazionale deve lavorare per stabilizzare la regione, arginare il terrorismo islamico e mettere in “sicurezza” gli investimenti e gli interessi economici di importanti aziende.Occorre un disegno politico chiaro per il futuro della Libia che contempli anche un piano economico, e non viceversa.

Metti un giorno Francesco e Kirill a Cuba

L’argine che ha separato per secoli i fiumi del cattolicesimo d’Oriente e d’Occidente è crollato. La chiesa di Roma e quella di Mosca si avviano a ricomporre uno scisma millenario, dopo due anni di trattative nascoste, nelle ultime settimane l’accelerazione e la svolta con l’annuncio dell’incontro tra Francesco e Kirill. Cuba il luogo preposto ad accogliere questo passaggio della storia, nessuna sede diplomatica o palazzo di potere ad ospitare l’evento, semplicemente, in perfetto stile Bergoglio, un luogo comune, un aeroporto, quello dell’Avana. Cuba isola ponte come la definì il Papa nel suo recente viaggio, tra nord e sud, est e ovest del mondo, terreno neutro. Cuba anche per Kirill è un luogo neutrale, è parte del nuovo mondo, lontano dalle critiche dell’ortodossia oltranzista che non vede di buon occhio questo incontro. Il colloquio in forma privata durerà due ore, parleranno in spagnolo e russo, affrontando la problematica situazione della persecuzione dei cristiani in Medioriente. Alla fine una dichiarazione congiunta e lo scambio dei doni alla presenza del presidente cubano Raoul Castro. Uno stato comunista e un leader rivoluzionario offrono “asilo” alla religione e alle sue controversie. Basterebbe questo a spiegare che il mondo è cambiato molto e rapidamente. “Sono felicissimo” il commento stringato ma naturale e preciso di Papa Francesco alla notizia. La rottura tra Oriente ed Occidente aveva alla base una discussione puramente teologica sulla natura dello Spirito Santo mentre, la riconciliazione ha una ragione ben più pragmatica: la sicurezza dei cristiani in Medioriente, in particolare modo in Siria. “Auspico, che con generosa solidarietà, si presti l’aiuto necessario per assicurare loro sopravvivenza e dignità …. Solo una soluzione politica del conflitto sarà capace di garantire un futuro di riconciliazione e di pace a quel caro e martoriato Paese” ha avuto modo di dire più volte il Santo Padre. I cristiani arabi sono una minoranza dal futuro oramai troppo incerto, vittime della violenza del terrorismo e della guerra. Il fondamentalismo islamico mette a serio rischio la tradizionale presenza cristiana nella regione. Il faccia a faccia tra il Patriarca e il Papa è un passaggio della storia delle religioni lungamente atteso e ricercato, segue le orme dell’incontro tra Paolo VI ed il Patriarca di Costantinopoli Atenagora a Gerusalemme 51 anni fa, di fatto l’inizio di un nuovo percorso nei rapporti tra cattolici e ortodossi. Fino al 1 Dicembre 1989 quando Gobarciov incontrando Papa Giovanni Paolo II in Vaticano aprì alla libertà religiosa in URSS mentre l’impero sovietico si sgretolava. Queste due tappe cruciali della storia ci permettono di capire quanto lungo è stato il percorso che conduceva a questo evento. Nell’anno giubilare della Misericordia non a caso Francesco sceglie il dialogo e la riconciliazione tra le fedi. Tuttavia, è difficile pensare che l’abbraccio fraterno tra Francesco e Kirill non abbia ricevuto l’imprimatur di Putin, nella speranza del premier di allentare l’attuale isolamento internazionale della Russia. Sulla vicenda Ucraina  Papa Francesco è stato un interlocutore di Putin e del Patriarcato di Mosca, senza svolgere un ruolo di parte, ha mediato restando in disparte, cosa molto apprezzata. Infine apertamente ha preso posizione nella vicenda siriana, contrastando l’intervento militare occidentale. La diplomazia vaticana voluta da Francesco è allo stesso tempo poliedrica e multipolare, attenta a non privilegiare taluni contro gli altri e  questo rappresenta la dimensione profetica del papato di Francesco. Per il Patriarca di Mosca i nuovi rapporti con Roma avvengono alla vigilia del sinodo Panortodosso, che avrebbe dovuto tenersi a Istanbul ma che l’escalation di tensione tra Mosca e Ankara hanno “diplomaticamente” spostato a Creta. Dove le chiese nazionali ortodosse, le cosiddette chiese autocefale, con quella di Costantinopoli guidata da Bartolomeo cercheranno una nuova, non sempre semplice, mediazione ad un conflitto tutt’ora esistente. Invece, al suo interno la chiesa ortodossa post sovietica affronta le stesse sfide di Francesco: recuperare la fiducia dei fedeli, aprendo la chiesa al nuovo millennio. Anche con l’utilizzo dello strumento mediatico. Per questo durante l’incontro, quasi sicuramente, le due massime autorità religiose mostreranno amicizia e serenità, evitando di affrontare un argomento delicato come la questione delle chiese ucraine devote a Roma. In fondo quello di Cuba è solo “uno scalo tecnico” del lungo viaggio di Bergoglio.

Un tavolo di pace ancora è possibile

Roma crocevia del futuro assetto politico della sponda Sud del Mediterraneo. Il viaggio del Segretario di Stato americano John Kerry nella città eterna è stato denso di contenuti, al centro dei colloqui questioni delicate come Libia e Siria, a sottolineare l’ultimo atto o tentativo di politica internazionale dell’era Obama. “E lui ora può fare ciò che vuole” libero da vincoli di mandato, l’opinione è di Isaac Herzog, leader del centrosinistra israeliano, rilasciata durante la sua visita romana. Herzog ha presentato a Kerry, in un incontro non ufficiale, un piano strutturato per la ripresa del percorso di pace tra palestinesi ed israeliani che prevede il disimpegno militare dalla West Bank, la fine di fatto dell’occupazione: “separazione” e organizzazione di una conferenza regionale sulla sicurezza in cooperazione con i paesi arabi. “Israeliani vengono uccisi nelle strade e nel mondo vediamo sorgere iniziative surreali e boicottaggi. Il ritiro – dalla West Bank – è il cammino, l’unico, per la soluzione di due Stati.” Il leader laburista, sconfitto nelle passate elezioni da Netanyahu, non è ottimista, non elude il problema del governo di destra che governa il suo paese, a differenza del falco della politica israeliana è consapevole di avere un forte ascendente e un canale privilegiato nei rapporti con Washington. Dove gode di quella amicizia che Netanyahu letteralmente ha portato ai minimi termini, i rapporti tra il leader della Knesset e il presidente degli USA sono pessimi, non c’è fiducia tra i due storici alleati tanto da arrivare, nei passati mesi, ad aperte accuse di spionaggio. Quanto Herzog sia riuscito a convincere il capo della diplomazia della prima potenza mondiale lo capiremo a breve. Intanto c’è tornata alla memoria una vecchia intervista a Khaled abu Awwad, palestinese e pacifista: “Noi e gli israeliani viviamo nel luogo più bello al mondo, eppure non c’è normalità e umanità nel nostro agire.” Khaled ha trascorso un lungo periodo di detenzione nelle carceri israeliane per motivi politici, oggi è considerato uno delle 500 personalità arabe più influenti e in Palestina è impegnato nel promuovere la via della non violenza e del dialogo: “la scelta delle armi è sbagliata, non è con la violenza, con il terrorismo dei kamikaze che raggiungeremo la libertà. C’è un cammino da fare insieme agli israeliani ed è quello del dialogo, dobbiamo sederci e chiarirci una volta per tutte: Qual è il vostro problema? Qual è il nostro problema? Ebrei, cristiani e musulmani siamo su questa terra per costruire e non per distruggere ed uccidere. Pace è una bella parola solo se ha un valore è un contenuto.” Forse hanno ragione Herzog e Khaled una possibilità per mettersi al tavolo, ancora una volta, è possibile. Il problema, a questo punto, è chi invitare.

 

Boicottiamo Im Titrzu

L’elenco dei firmatari è arrivato a 168. Si, sono tanti gli accademici italiani che hanno sottoscritto un documento per il boicottaggio delle Università israeliane. Un gesto che in queste ore è finito nelle prime pagine della stampa internazionale. Nel manifesto si legge: “le università israeliane collaborano alla ricerca militare e allo sviluppo delle armi usate dall’esercito israeliano contro la popolazione palestinese, fornendo un indiscutibile sostegno alla colonizzazione della Palestina”. L’appello in particolar modo è rivolto contro l’istituto pubblico Technion di Haifa: “il Technion è coinvolto più di ogni altra università”. L’Istituto fondato nel 1912 oggi ha oltre 13 mila iscritti, il 20% degli studenti sono arabi. “Il Technion svolge una vasta gamma di ricerche in tecnologie e armi utilizzate per opprimere e attaccare i palestinesi” questa l’accusa dei firmatari che chiedono “di porre fine a ogni forma di complicità con il complesso militare-industriale israeliano” e “l’interruzione di ogni forma di cooperazione accademica e culturale”. Nel ’23 Albert Einstein divenne il presidente della società del Technion aprendo di fatto la tradizione dei Nobel, ben tre docenti di questa prestigiosa accademia hanno ricevuto la massima onorificenza di Stoccolma. Nel 2015 il Technion era nella lista delle 100 migliori università al mondo, mentre la facoltà di Ingegneria scalava la classifica delle 30 più prestigiose. Il Technion, secondo l’appello degli accademici italiani, è colpevole anche di premiare gli studenti che svolgono il servizio militare e i riservisti. In Israele il servizio di leva è obbligatorio, sia per le donne che per gli uomini di religione ebraica. Nel mirino del manifesto sono anche aziende e multinazionali che collaborano, a vario livello, con l’istituto, la lista nera include: Caterpillar, Elbit System, Rafael Advanced Defence System. E’ innegabile che il bulldozer Caterpillar D9 è utilizzato dall’esercito di Tzhal per radere al suolo le abitazioni dei terroristi e non solo, ma il controllo remoto installato sul mezzo, proveniente dal Technion, è utilizzato per uso civile in molti altri paesi. “Nasce” dal Technion anche il sistema avanzato di protezione dei carri armati israeliani Merkava che abbiamo visto in combattimento nell’ultima guerra di Gaza, ma in dotazione ai mezzi militari degli alleati che operano in Afghanistan contro i talebani. I primi firmatari dimenticano tuttavia di citare importanti studi di settore compiuti al Technion ad esempio: la facoltà di Farmaceutica studia la resistenza degli antibiotici e i fattori di virulenza del batterio stafilococco aureus. Il dipartimento di Ingegneria alimentare ha sviluppato cibi speciali per i bambini affetti da celiachia. Altri studi mirati per Ingegneria biomedica e biotecnolgie sono in fase avanzata e producono benefici umani riconosciuti. Insomma pensare che la soluzione del conflitto israelo-palestinese dipenda da una università è alquanto riduttivo. Le responsabilità politiche del governo di Gerusalemme sono evidenti ma non possono essere fatte ricadere interamente su Israele, altrimenti si entra in un circolo vizioso da cui è complicato uscire. La realtà del contesto insegna che vivere da una parte del muro o dall’altra non è la stessa cosa. Non c’è bisogno di distorcere la verità dei fatti, ma se non si vuole perseguire, come nel caso del manifesto, la strada dell’equivicinanza allora senza prevaricare i diritti degli uni e degli altri sarebbe opportuno agire secondo equidistanza. La cronicità del conflitto produce una gestione che risponde in modo cinico ed ansiogeno agli eventi in corso e allunga i tempi di una soluzione ragionevole, come dimostrano la recente ondata terroristica di matrice palestinese e le politiche del governo di Netanyahu. Un buon appello da sottoscrivere in queste ore sarebbe quello di esprimere tutta la nostra solidarietà in favore degli intellettuali e degli artisti israeliani che sono oggetto della campagna denigratoria, in perfetto stile maccartista, dell’associazione di estrema destra Im Tirtzu: che ha tappezzato di manifesti con i volti degli intellettuali “inquisiti” e la scritta talpe (traditori) i principali centri di Israele. Boicottiamo Im Tirtzu.

 

IL GIORNO DELLA MEMORIA

Il Giorno della Memoria è il ricordo della Shoah, ed è giusto non dimenticare mai quello che è accaduto. Ma oggi deve essere sempre di più un momento per ribadire che umanità e civiltà devono accompagnarci nella vita. Stiamo vivendo nella nostra Europa un periodo pericoloso di violenza, basta vedere gli ultimi casi: poco tempo fa assalito un ebreo perché indossava la kippah a Marsiglia e a Milano è accaduto un episodio identico, con l’accoltellamento di un ebreo ortodosso. In queste ore il muro della Sinagoga nell’antico quartiere ebraico di Istanbul è stato imbrattato di scritte. Affrontiamo un nuovo radicamento dell’antisemitismo, mentre le voci dei sopravvissuti alla Shoah si stanno spegnendo piano piano, per sempre. Intanto le teorie negazioniste imperversano dentro e fuori i confini del nostro Vecchio Continente, il fondamentalismo fomenta il razzismo in un ciclo di terrore, di morte. E la possibilità di una nuova Shoah incombe. “Io ero convinta che fosse una cosa che non si sarebbe mai ripetuta, mai. Adesso molto meno. Alla gente non interessa sapere, sarebbero pronti domani a rifare le stesse cose”. Parla così Iris Steinmann a Marcello Pezzetti nella raccolta di racconti dal titolo “Il libro della Shoah italiana”. Nei racconti dei sopravvissuti all’Inferno dello sterminio c’è spesso una visione negativa per il futuro: sono conclusioni che devono far riflettere, è un monito da non sottovalutare. Verità da ascoltare e tramandare. “Un giorno la nostra blokova (le donne che controllavano i bambini nei lager, anche chiamate “angeli della morte”) ci ha detto: Vi chiederanno se volete raggiungere la mamma, voi dovete dire di no! … Poi hanno radunato tutti noi bambini e ci hanno chiesto: Chi vuol andare dalla mamma? Mio cugino Sergio è stato fra quelli che hanno voluto raggiungere la mamma. Noi gli abbiamo detto: No, non andare, resta con noi! Ma lui ha voluto andare. Mi sono sempre chiesta se questo ricordo può essere vero, perché non è possibile chiedere a dei bambini: Volete andare dalla mamma? Andra Bucci ha obbedito alla donna che la controllava ed è stata la sua salvezza. Il piccolo Sergio De Simone è stato condotto nel campo di Neuengamme dove i bambini erano usati come cavie per esperimenti, iniettando i bacilli vivi della tubercolosi. Sergio venne impiccato in una scuola di Amburgo pochi giorni prima della fine della guerra, aveva creduto che perfidi uomini volessero fargli incontrare la madre. Questo ha fatto il nazismo con la complicità del fascismo. “Io sono ebrea. Se mi riportassero in campo di concentramento non cambio religione”, commentò Matilde Beniacar. Negare oggi a qualcuno di indossare la kippah è un crimine grave che deve svegliare le coscienze e allontanare il dubbio che possa diffondersi quel torpore che in tempi passati accompagnò la nascita del nazifascimo in Europa. I simboli dell’ebraicità, come quelli della cristianità in Medioriente, in questo momento sono vulnerabili alla violenza del fondamentalismo, quella sottile linea rossa tramandata a così caro prezzo rischia di essere oltrepassata. “Testimoniare per me vuol dire tornare indietro come era una volta, e poi settimane e settimane per riuscire di nuovo a riprendere la vita normale …. se si può dire normale, perchè la vita non è stata più normale per noi”, dice così Shlomo Venezia nel libro di Pezzetti. Il 22% dei partecipanti all’ultima ricerca elaborata dall’istituto SWG in collaborazione con la redazione giornalistica (Pagine Ebraiche) dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, anticipata in queste ore, dichiara che il giorno della Memoria non serve più a nulla. Invece, la percezione generale degli intervistati è che “in Italia il sentimento antisemita resti poco o per nulla diffuso”. Poco non vuol dire mai più.

CALIFFO E SULTANO IN LOTTA

In Turchia non c’è pace, il 2015 si è chiuso con un bilancio molto pesante, si sono susseguiti attentati e forti fibrillazioni politiche. Il 2016 si è aperto con un nuovo attentato nel quartiere culturale di Istanbul. La strage è un messaggio all’Occidente: il terrorismo fondamentalista vuole uccidere i turisti europei, danneggiando l’industria del viaggio. Ha colpito le spiagge della Tunisia e recentemente quelle di Hurghada. Dalla Francia al Maghreb ha versato sangue in teatri, ristoranti, musei e alberghi. Una scia di orrore che giunge fino alle sponde del Bosforo dove nella mattina di martedì un kamikaze di origine siriana si è fatto esplodere in piazza Sultanahmet a pochi metri dalla Moschea Blu e da Santa Sofia, lasciando sul selciato dove si erge l’obelisco di Teodosio una fila di cadaveri, quasi tutti di nazionalità tedesca. La strage al cuore della vecchia Bisanzio porta la firma dei miliziani del Califfato. La Turchia è una delle destinazioni turistiche più visitate del Mediterraneo, il fascino che emana Istanbul incanta ancor oggi i viaggiatori di tutto il mondo. Crocevia di storia e civiltà, dagli antichi Ittiti ai Romani, dall’Impero di Bisanzio a quello ottomano. Un paese moderno forgiato da un solo uomo Ataturk che alla fine della Prima Guerra mondiale, dalle macerie di un’impero multinazionale e multireligioso, ha costruito una nazione laica e protoccidentale. Quasi un secolo dopo l’identità della porta d’ingresso all’Europa è ancora sfuggente e contraddittoria. Un paese in bilico, fragile e conflittuale. Terra di passaggio per coloro che sono in fuga, ospita oltre due milioni di profughi. Ostinatamente rifiuta di ammettere le proprie responsabilità nei confronti dello sterminio degli armeni; continua ad opporsi strenuamente alla nascita di uno stato curdo; è “pesantemente compromessa” nella questione siriana, rappresentando una base logistica sicura per coloro che in Siria combattono nel nome del Califfato. Una relazione pericolosa quella tra Turchia e Stato Islamico che ha esposto il governo di Ankara a forti critiche e pressioni internazionali. Qualcosa però stava cambiando negli assetti geopolitici, pochi giorni fa la polizia turca aveva dichiarato di aver effettuato arresti ed espulsioni di simpatizzanti Isis provenienti dall’Europa, potenziali foreign fighters. E poi l’annuncio, meno di 24 ore prima dell’attentato di Istanbul, di aver scoperto una rete terroristica pronta a colpire su vasta scala le capitali del Vecchio Continente. Ebbene, esaminando gli episodi drammatici degli ultimi dodici mesi è evidente l’evoluzione strategica di un conflitto asimmetrico che l’intelligence non è in grado ancora di prevenire. Significativa la modalità d’azione eseguita negli attentati compiuti: meticolosa programmazione, indice di ricerca, preparazione nei dettagli e nel bersaglio da colpire. Non c’è improvvisazione in questa macchina della morte, ma fredda lucidità. È un salto di qualità del terrorismo islamico. L’obbiettivo finale è diffondere il caos. Non è la prima volta che l’Occidente è attraversato dal terrore, ideologie aberranti hanno reclutato, indottrinato, addestrato e mandato ad uccidere già altre volte. Tuttavia l’Isis ha consolidato in questi mesi la supremazia tra le organizzazioni terroristiche, è arrivata dove altri avevano in passato fallito: toglierci la tranquillità, infondere la paura generale. La guerra santa dell’Isis è globale, ma ha un fondamento politico e militare nell’area siro-irachena. La prossimità con la Turchia allarga il territorio dove girano liberamente i proseliti di Daesh e dove, tra le maglie dei migranti, sono reclutati terroristi per compiere missioni assegnate in altri paesi, inclusa l’Europa. Ecco, quindi, che il terrorismo islamico lega dinamiche regionali a effetti internazionali con risultati devastanti. Dietro a convergenze politiche, accordi da bazar, sfere d’influenza, c’è il disegno per imporre l’egemonia sul futuro Medioriente. Le ambizioni del “sultano” Erdogan di riaffermare il ruolo della Sublime Porta vacillano sotto le ambiguità dei misteri che lo legano al “califfo” Abu Bakr Al Baghdadi. Intanto nel Bosforo risuona la prima esplosione e domani rischiamo di dover commentare una nuova pagina di terrore.

SETTLERS

In Israele in questi giorni è dibattito sull’occupazione. Molti intellettuali israeliani sono più volte intervenuti pubblicamente per segnalare come l’atteggiamento del governo guidato da Netanyahu abbia contribuito a peggiorare il clima politico. Israele oggi non è più lo stato laico e aperto di qualche anno fa, stanno prevalendo estremismi di tutti i generi. Nelle ultime ore è intervenuto lo scrittore Amos Oz che ha scelto di esprimere la propria opinione scrivendo una lettera ai giornali: «In considerazione delle politiche sempre più estreme del governo israeliano, chiaramente intenzionato a controllare i territori occupati espropriandoli alla popolazione locale palestinese, ho appena deciso di non partecipare più ad alcuna iniziativa in mio onore nelle ambasciate israeliane». La Comunità Internazionale riconosce che il sopruso alla Palestina è nell’occupazione militare israeliana e nella costruzione delle colonie oltre la linea Verde. Entrambe le questioni risalgono al 1967 e ininterrottamente arrivano sino ai giorni nostri. Gli insediamenti di fatto hanno provocato un’alterazione della carta geografica della regione, precludendo il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione in uno stato autonomo. “Il colonialismo odierno ha rimescolato le carte ma la partita rimane truccata.” Inizia così la nostra intervista al professor Lorenzo Veracini, origini toscane e docente all’Università di Melbourne, uno dei massimi esperti in materia di colonialismo. Willem De Klerk, premio Nobel assieme a Mandela, ha detto: “senza una soluzione di due stati per due popoli Israele può trasformarsi in uno stato d’apartheid”. C’è chi ritiene che di fatto è già la realtà della condizione dei palestinesi. Secondo Veracini “ci sono affinità e divergenze. L’affinità principale riguarda il fatto che una comunità si arroga il diritto di controllare la mobilità dell’altra: dove si può andare, quando, con che permessi. Se sei un palestinese e passi la vita a fare la fila ai checkpoint magari la somiglianza ti salta agli occhi”. Oggi, in base agli Accordi di Oslo, la West Bank è divisa in tre tipologie di aree: A, B e C. Le colonie sorgono nelle aree denominate C, sotto il completo controllo israeliano. Dove risiedono oltre 500 mila persone, chiamati internazionalmente settlers. Per il professor Veracini “esistono varie comunità di settlers nella West Bank. Si tratta di gruppi molto diversi che alle volte hanno poco in comune. Tantissimi sono di provenienza statunitense. Quello che accomuna tutti i settlers è il senso di una sovranità politica che si attribuiscono in modo unilaterale. Non negano solo la presenza e i diritti dei palestinesi, contestano in via di principio anche le prerogative dello stato di Israele.” Nella storia di Israele un ruolo fondamentale hanno avuto i pionieri, così si definivano molti kibbutznik appartenenti al modello di vita collettiva. Oggi i coloni hanno fatto proprio il mito del pionierismo e impongono la linea al governo. Veracini sottolinea come “anche qui ci sono affinità e divergenze. La differenza principale a mio avviso è che molti dei kibbutz dopo il ’48 operavano in un contesto dove la pulizia etnica della popolazione palestinese era già avvenuta.” Il segretario di Stato americano John Kerry in un’intervista rilasciata al New Yorker magazine ha criticato il governo israeliano: “Costruire insediamenti e la demolizione di case palestinesi non è una soluzione”. Sulla questione Gerusalemme e Washington sono su posizioni divergenti. Il docente dell’Università di Melbourne commenta così: “Se ci fosse un processo di pace gli insediamenti peserebbero tantissimo. Ma un processo di pace degno di questo nome al momento non c’è. Quindi, in realtà, per il momento, il problema conta relativamente poco”. La polizia israeliana è impegnata a contrastare i price tag, crimini vandalici e terroristici compiuti da organizzazioni di fanatici coloni. “Il colonialismo produce ideologie disumanizzanti, sopratutto nei casi dove la prossimità fisica tra colonizzato e settler crea i presupposti per un processo di radicalizzazione”. È l’analisi del professor Veracini. In Europa intanto si continua a discutere di boicottaggio e misure di tracciabilità dei prodotti provenienti dagli insediamenti e il dibattito è acceso. A riguardo Veracini dice: “Non c’è una sottile linea rossa tra i due approcci. Sono due cose completamente diverse. Il primo approccio costituisce un atto politico. Il secondo sancisce un mero dato di fatto. La scelta poi passa al consumatore”. Il microcosmo dei coloni in Palestina è una materia complessa e contraddittoria. Uno dei tanti problemi irrisolti del Medioriente.

Fauda e Balagan. Un blog di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi