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ADDIO YEHOSHUA

Nel maggio 2014 alla vigilia del pellegrinaggio di papa Francesco in Medioriente, grazie al comune amico Cesare Pavoncello, abbiamo avuto modo di avere un lungo colloquio con lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua, “riflessioni” che riportammo in un capitolo del nostro libro dedicato a quell’evento storico (Francesco in Terra Santa, Edizioni ETS – 2014). Stralci che oggi dedichiamo alla memoria di un grande scrittore e intellettuale del nostro tempo. Un gigante che con il suo impegno in favore della pace ha rappresentato un faro della sinistra, israeliana e non.

«A differenza di quello che è stato da molti sostenuto nell’ultimo secolo e mezzo e in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, dobbiamo ricrederci sul fatto che di fronte al razionalismo e alla tecnologizzazione le religioni siano destinate a soccombere. Sembra invece che, in queste condizioni che si fanno sempre più estreme, l’uomo abbia bisogno di un angolo in cui regni l’emozionalità, la fede. Ma se per molti la religione può rappresentare un angolo caloroso e sano dove dare spazio alla propria spiritualità e alla propria fede, altri la portano a estremismi pericolosi, soprattutto quando viene legata a ideologie nazionaliste, settarie e a pratiche mistiche o addirittura magiche, che non possono portare a nulla di buono né su un piano individuale né tanto meno su uno sociale.
Penso che soprattutto in questo suo viaggio Francesco dovrebbe agire per rafforzare lo status dei Cristiani tanto in Israele quanto nell’Autorità Palestinese, di fronte all’ondata di fanatismo sia di gruppi ebraici che islamici. I cristiani israeliani vivono una difficile situazione in cui dai loro fratelli musulmani sono respinti in quanto cristiani e dalla popolazione ebraica non sono accolti bene tanto per il fatto di essere arabi, quanto per la loro religione, ancora vista con sospetto; in realtà la grande maggioranza di questa parte della popolazione israeliana propende per una maggiore integrazione nella società israeliana ebraica. Considero di primaria importanza la loro presenza qui, nella nostra società; fanno parte della storia di questo luogo, sono per diritto parte del suo tessuto storico e religioso e non deve assolutamente avvenire ciò che è già successo in Libano ma anche in molti altri paesi del Medio Oriente – compreso nell’Autonomia Palestinese – dove c’è una progressiva emigrazione del popolo cristiano. Per questo spero che Papa Francesco trovi il modo di sostenere e rafforzare i cristiani in Israele e di incitare il mondo cristiano a ricongiungersi con il luogo di origine della propria religione, sentendosi liberi di visitarlo, venirlo a conoscere e compiervi il proprio pellegrinaggio religioso. La Terra Santa e tutti i suoi luoghi sacri devono essere aperti a tutti i culti.
Alla politica oggi occorrono coraggio, saggezza, capacità di chiedere ma anche di dare e soprattutto di distinguere l’essenziale dall’irrilevante. Per tradurre le mie parole in termini pratici, dico che se Netanyahu considera così importante il riconoscimento di Israele come stato ebraico e Abu Mazen vuole di contro che sia detto chiaramente che i confini del futuro stato palestinese ricalcheranno quelli di prima della vigilia della Guerra dei Sei Giorni del ‘67, ebbene che i due scambino questi due riconoscimenti, la cui sostanza è fondamentalmente accettata dalle due parti. C’è qualcuno – Abu Mazen compreso – che può negare l’ebraicità d’Israele? E c’è qualcuno – Netanyahu compreso – che pensa a uno stato palestinese in confini molto diversi da quelli del Giugno ‘67, salvo gli scambi di territori di cui si è già ampiamente discusso? Altro esempio: il diritto al ritorno dei Palestinesi nei confini di Israele non è realistico se si vuole veramente arri- vare a una pace – e questo lo ha riconosciuto lo stesso Abu Mazen – ma in cambio di questa rinuncia deve essere dato anche a loro uno status legale a Gerusalemme perché sia la capitale anche dello Stato Palestinese. E così via per tutti i nodi veramente importanti del conflitto e sui quali le due leadership devono assolutamente trovare il modo di ricevere e dare, ricevendo ciò che è fondamentale e riconoscendo all’altro lo stesso diritto. I leader dei due popoli devono prendere il coraggio a due mani e fare i passi necessari senza curarsi – da una parte e dall’altra – delle frange estreme, dell’integrità della loro coalizione politica. Almeno per quello che riguarda Israele, posso dire che anche oggi, nonostante tutti i problemi, lo scoraggiamento di molti e la reciproca sfiducia fra i due popoli, c’è una netta maggioranza nell’ambito dell’opinione pubblica israeliana a favore di un accordo di pace che presenti sufficienti garanzie. Se poi l’alternativa per Israele è uno stato binazionale in cui, stando ai dati demografici, la popolazione ebraica è destinata a divenire minoranza, per i palestinesi è il perpetuarsi di livelli di vita bassissimi, e per tutti e due è continuare a vivere in una situazione conflittuale che costa ai due popoli lacrime e sangue – beh, allora, non so proprio che cosa Netanyahu e Abu Mazen stiano aspettando. Chissà che Papa Francesco non riesca a instillare in questi leader il sentimento e la ragione necessari per superare gli ostacoli verso la pace.
Infine, se dovessi regalare a Papa Francesco un mio libro sceglierei senz’altro Il signor Mani perché è un racconto che nella sua prospettiva storica fa assaporare tanto il presente quanto il passato di questo paese, facendo capire la sostanza del conflitto, vale a dire che non c’è un popolo che ha diritti sulla terra mentre l’altro è un intruso: questa terra appartiene tanto agli arabi quanto agli israeliani e, come in passato la convivenza è stata possibile, il futuro che il libro vuole indicare è quello in cui si ritrovi la strada del rispetto reciproco nell’ambito di un compromesso territoriale».
Abraham Yehoshua

L’ITALIA E LA NUOVA VIA DEL GAS

Mario Draghi in Israele e Cisgiordania. A Gerusalemme per incontrare i vertici dello stato israeliano e a Ramallah quelli dell’Autorità nazionale palestinese. Nell’ultimo colloquio a Roma con il presidente Abu Mazen, lo scorso novembre, Draghi aveva sottolineato che “una soluzione a due Stati, giusta, sostenibile e negoziata tra le parti resta la chiave per una durevole stabilizzazione regionale”. Negoziati di pace che ad oggi sono impantanati da veti incrociati che impediscono qualsiasi progresso.
Concretezza e diplomazia sono invece le ragione alla base del viaggio del presidente del Consiglio italiano in Israele, alla ricerca delle strategiche forniture di gas alternative a Mosca. Al centro della cooperazione tra i due stati del Mediterraneo anche sicurezza alimentare, innovazione, import ed export. Ragioni bilaterali a parte, lo scoppio del conflitto in Ucraina sta rapidamente ridisegnando la geopolitica internazionale e le sue geometrie. Non a caso questa visita ufficiale giunge prossima al G7, a ridosso del vertice della Nato di Madrid, e dell’arrivo in Medioriente di Biden.
L’indicazione di Washington è di serrare i ranghi nella battaglia a Putin. Semplice diktat agli alleati, ma con qualche distinguo. L’Italia con l’inasprimento delle sanzioni alla Russia ha bisogno prioritario di implementare il fabbisogno energetico, Israele del riconoscimento della sua “neutralità diplomatica” nel conflitto. Due approcci, dovuti a diverse finalità, che hanno più di un punto in comune.
Italia ed Israele condividono attualmente l’esperienza di due governi di “unità nazionale” e di una forte instabilità politica alla porta. Se Draghi può contare su un forte centralismo di governo che resiste alle fibrillazioni della sua maggioranza politica pur con l’avvicinarsi del voto, il variegato e surreale assemblement a guida Bennett, che riunisce destra, centro, sinistra e gode dell’appoggio esterno del partito arabo islamista, è sempre più una fittizia invenzione.
Creato unicamente in funzione anti-Netanyahu, in questi ultimi dodici mesi, attraversati da pandemia e guerra, un po’ tutti si erano illusi che la stella del longevo ex premier fosse entrata nella fase calante, relegato all’opposizione e non rappresentasse più un problema politico. Erroneamente si è creduto che “il falco” della destra avesse svuotato la faretra delle frecce da scagliare. Mentre, la coalizione di governo con il passare del tempo non ha potuto contenere e comprimere le distanze ideologiche esistenti al suo interno, liquefacendosi.
Tra defezioni, divisioni, protagonismi, la vita del primo esecutivo post-Netanyahu è decisamente molto accidentata. A questo punto un cavillo puramente “tecnico” (basta solo un’altra diserzione tra le file della maggioranza) attende l’imminente fatale stacco della spina. Nel qual caso la Knesset si troverebbe difronte al dilemma di indire nuove elezioni o formare una maggioranza qualificata. Evoluzioni politiche in divenire che non alterano la stretta collaborazione ed amicizia con l’Italia.

SOPRAVVISSUTI ALL’OLOCAUSTO, MEMORIA E L’INGIUSTIZIA

Al mondo sono sempre meno gli scampati al genocidio ebraico ancora in vita. Secondo alcune stime attualmente sarebbero circa 400mila. Numero che si sta rapidamente assottigliando ed entro la fine del decennio 2030 potrebbe raggiungere lo 0.
Israele è lo stato dove vive la gran parte dei perseguitati dal nazifascismo, sei anni fa i sopravvissuti all’Olocausto erano 190mila, 45mila si trovavano economicamente sotto la soglia di povertà. Nel 2021 15mila sono il totale dei deceduti in Israele (Holocaust Survivors’ Rights Authority, 2022). Con una media di 42 morti al giorno.
Oggi, la maggioranza dei 161.400 superstiti è nella fascia di età compresa tra 85-86 anni, 1/5 ha compiuto più di 90 anni e mille hanno passato i 100. Il 63% è nato in Europa, il gruppo più numeroso proviene dall’ex blocco dell’Unione Sovietica, circa uno ogni tre. Il 12% è nato in Romania, 5% in Polonia, 2,7% Bulgaria, l’1,4% Ungheria e Germania. Il 18,5% è originario del Marocco e dell’Algeria, 11% Iraq e il 7% proviene da Libia e Tunisia.
Le donne rappresentano più della metà (61%) dei superstiti. La distribuzione geografica spazia in tutto il paese, Haifa conta tra i suoi cittadini 11mila sopravvissuti, Gerusalemme 10mila e Tel Aviv 8.700. Mentre, sono 7.743 coloro in attesa di ricevere l’alloggio pubblico. Tra questi c’è chi attende da oltre 20 anni.
Riuscire ad entrare nelle case popolari non è l’unico problema. Gran parte delle famiglie dei sopravvissuti non possono permettersi l’assistenza sanitaria, 90 ore mensili è il sussidio domestico riconosciuto dal governo. Sono ufficialmente 42 mila a ricevere sostegno dal Ministero dei Servizi Sociali. L’Autorità competente ha un budget annuale di 5,5 miliardi di shekel (1,57 miliardi di €). Ma rientrare tra i beneficiari del programma assistenziale non è così semplice e scontato.
Nella cultura umana l’Olocausto è un evento incomparabile. Nella nostra epoca di guerra c’è un diffuso ricorso a parallelismi storici tanto inappropriati quanto distorsivi, e le falsità propagandate si sprecano. Mistificazioni ad uso politico, come ad esempio le parole antisemite deliranti pronunciate dal ministro degli esteri russo Lavrov. Avraham Roet è un superstite, in occasione di Yom Ha-Shoah, Giorno del Ricordo, ha pubblicato una toccante lettera, dove non risparmia critiche alle istituzioni.
Roet nel suo atto d’accusa si sofferma su tre richieste: la restituzione dei beni depredati alle vittime della Shoah e non restituiti, il diritto dei sopravvissuti a trascorrere la vita dignitosamente e quello di veder tramandata la loro memoria. Una fondazione caritatevole israeliana ha pensato di portare il primo museo dell’Olocausto nel Metaverso. Un modo di connettere generazioni proiettando le loro storie nello spazio del mondo virtuale.
La realtà invece è fatta anche di profonda ingiustizia. E paura. Almeno è quanto si evince dal sondaggio pubblicato alla vigilia delle commemorazioni, che quest’anno cadevano il 26 e 27 aprile, dal quotidiano Israel Hayom: il 47% degli intervistati teme un prossimo Olocausto.

LA FAVOLA E LA GUERRA

Se c’è una favola della tradizione di Esopo che ben rappresenta il conflitto israelopalestinese, è sicuramente quella dell’aquila e della volpe. Una storia di convivenza infranta, nel peggiore dei modi. Con l’aquila che per nutrire i propri aquilotti irrompe nella tana e divora i cuccioli della volpe. E gli aquilotti che caduti a terra e vengono sbranati dalla volpe. Il senso del triste racconto è che chi tradisce l’amicizia, anche se per superiorità di potere e forza, sfugge alla vendetta delle vittime, deve alla fine fare i conti con il fato crudele. Israeliani e palestinesi, come la volpe e l’aquila, non hanno alternativa ad accettare di vivere l’uno accanto all’altro e finchè non avranno trovato un modo civile per farlo, le colpe del loro scriteriato agire ricadranno sui più deboli: gli indifesi cuccioli della volpe e gli aquilotti, gli innocenti bambini di Gaza come quelli delle città nel Sud di Israele. In questi decenni abbiamo purtroppo imparato che la diplomazia internazionale e le risoluzioni dell’Onu non ottengono il risultato prefissato. Frecce spuntate, che escono da una faretra vuota. Ciò che manca sono contenuti concreti da portare al tavolo della trattativa per fermare il ciclo vizioso della guerra. Non è servito tentare di imporla dall’alto (ci hanno provato in pompa magna tutti gli ultimi presidenti statunitensi ed oggi è arrivato il turno anche dell’amministrazione di Joe Biden) e non ha funzionato provare a svilupparla dal basso (il campo dei pacifisti è isolato e da ambo i lati si è ampiamente assottigliato). Non sono bastati nemmeno gli aiuti internazionali, attraverso la cooperazione, i piani d’emergenza e quelli per il dialogo, progetti che finiscono per avere un effetto palliativo e mai risolutivo. Non serve essere pessimisti per affermare che il conflitto israelopalestinese è sfuggito di mano da tempo, e non può essere ricondotto ad un piano logico di “normali” relazioni senza uno sforzo enorme e comune. Altrimenti varrà ancora la massima andreottiana: “Temo proprio che non vedrò la pace in Terra Santa in questa vita… Sospetto che non la vedrete neanche voi”. Chi non la vedrà è Adham al-Taani, un bambino di Gaza, aveva sei anni e viveva a Beit Lahiya. Adham è morto insieme ai suoi familiari. Sepolto sotto un cumulo di macerie. Quando è stato estratto dalle rovine della sua casa con il capo chino e il corpo coperto di polvere era irriconoscibile. Non potrà più giocare Ido Avigal, israeliano, che di anni ne aveva cinque. Quando le sirene di Sderot hanno iniziato a suonare la madre ha pensato di proteggerlo nascondendolo nella stanza blindata, che la scheggia di un razzo ha perforato. È deceduto poche ore dopo in ospedale. La madre e la sorellina sono rimaste ferite. Queste non sono favole ma storie di quotidiana normalità in Medioriente, è la cruda realtà sempre dietro l’angolo. In un conflitto dove il nodo resta e resterà per sempre intricato se non si riesce ad incanalare i contendenti sulla strada di una vera soluzione basata sul rispetto dei reciproci diritti.

FINE DI UN AMORE MAI NATO

Israele e la crisi politica. Dopo tre gironi elettorali in meno di un anno e la nascita di un governo di larghe intese, nato con lo scopo di gestire la pandemia, le tensioni dentro la traballante maggioranza sono emerse frantumando la coalizione. A Marzo 2021 si torna alle urne per scegliere la composizione della prossima Knesset. E con molta probabilità anche il nome del futuro premier. Fallito per solo due voti il tentativo di posticipare le scadenze sull’approvazione del bilancio 2020-2021, proroga che avrebbe mantenuto in piedi l’esecutivo, il parlamento si è automaticamente sciolto alla mezzanotte del 22 Dicembre, come previsto dalla legge.
La scorsa primavera, dopo le insistenti pressioni del presidente Reuven Rivlin e l’emergenza Coronavirus, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz ha ceduto scendendo a patti con il rivale Netanyahu. Firmando un accordo che prevedeva la rotazione al vertice del governo nel Novembre 2021. Ma che Netanyahu, in molti hanno pensato, non abbia mai avuto nessuna vera intenzione di rispettare. A confermare la reale intenzione i tanti segnali lanciati dal capo del Likud in questi mesi: dalla mancata approvazione proprio del bilancio – nodo cruciale del contenzioso – alla gestione personalistica – e talvolta segreta – della diplomazia internazionale. Fatto sta che a mettere la parola fine a questa legislatura è stato l’intrecciarsi di vari fattori. Due dei quali sono stati determinanti: lo strappo del Ministro della Difesa Gantz che in queste settimane ha aspramente attaccato e criticato Netanyahu, pur lasciando aperto lo spazio per la trattativa. E la scissione del Likud provocata da Gideon Sa’ar. Già da tempo spina nel fianco del falco della destra, ribelle e deciso a mettere fine al regno di Netanyahu.
Gantz, l’ex generale e fondatore del movimento Blu e Bianco (Kachol Lavan), nelle ultime settimane aveva manifestato non poca insofferenza nei confronti dell’alleato-nemico, minacciandolo pubblicamente. Fino ad arrivare ad istituire una commissione nel suo dicastero per investigare sulle presunte tangenti legate all’affare dei sottomarini venduti dalla Thyssen ad Israele. Scandalo dove il premier è chiamato in causa come testimone. Mentre, persone a lui molto vicine sono indagate. Quella di Gantz è stata una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti di Netanyahu. A far precipitare la situazione c’è voluta comunque l’uscita, polemica, di Sa’ar dal suo partito. Che ha deciso di dar vita ad un suo movimento, posizionandolo tra il Likud e Kachol Lavan. Operazione a cui hanno aderito parlamentari proprio delle due forze, togliendo ossigeno e numeri preziosi alla maggioranza.
Oggi, Israele è diviso equamente tra sostenitori e contrari al più longevo politico israeliano della storia, che nel corso degli anni ha “giocato” contro il centrosinistra, poi lo scontro si è spostato con l’area centrista e infine, a quanto pare, è diventato un duello interno alla destra. Il rapido deterioramento del governo è riconducibile, in parte, al contraccolpo del cambio di clima a Washington. Il declino di Trump ha ovviamente investito l’amico Netanyahu, aprendo il valzer dei posizionamenti.

RE BIBI CONTESTATO E ASSEDIATO

In Israele l’incastro tra crisi sanitaria ed economica ha prodotto un movimento di massa antigovernativo di indecifrabile portata. Ma è sbagliato pensare che sia una protesta ideologicamente uniforme e tendenzialmente apolitica. Dentro c’è di tutto, da anarchici a elettori di destra e persino ferventi religiosi. È una rivolta dai connotati generazionali, allargata ad altre fette della società in un obiettivo comune: le immediate dimissioni del premier Netanyahu. Tre gli episodi scatenanti: il declino del centro-sinistra sionista, il Covid e i problemi giudiziari di Netanyahu. Tanto il disfacimento di un’intera area politica, quella progressista, è stato lento e logorante, quanto l’avvento e gli effetti della pandemia sono stati rapidi e dolorosi per la tenuta sociale. La frastagliata sinistra sionista ha nel corso dell’ultimo decennio subito l’influsso negativo della stella di Netanyahu. Mostrando ad ogni sconfitta le proprie debolezze: l’emorragia di voti e la troppa facilità nella scelta di cambiamento del timoniere. La lunga sequenza di nomi che si alternano ai vertici della leadership è l’evidente limite di prospettiva: da Ehud Barak fino a Peretz è un continuo avvicendamento alla guida del partito socialdemocratico Avodà, da Haim Oron a Horowitz ruotano a catena nella segreteria del socialista Meretz. Due forze che rischiano domani di veder definitivamente prosciugato il proprio bacino elettorale, a scapito di un potenziale movimento di rinnovamento, trasversale ed alternativo. Nel breve, però, i cortei del dissenso sono un terremoto politico che scuote il palazzo. A l’imprescindibile slogan dell’opposizione (“Chiunque tranne Netanyahu”) se ne aggiungono altri: solidarietà al BLM, fine dell’occupazione dei territori palestinesi, rispetto per la comunità LGBT. Nelle piazze gli studenti invocano lavoro e i commercianti indennizzi. Il filo comune che li lega è la critica alla gestione dell’epidemia messa in atto dall’attuale esecutivo. Inizialmente, la risposta di contenimento del virus era apparsa repentina e adeguata: lockdown e obbligo di indossare la mascherina, con un basso numero di contagi, concentrato in determinate zone, ad essere maggiormente colpiti ortodossi e arabi. Poi a maggio la seconda ondata. I primi focolai nelle scuole. Il picco cresce esponenzialmente di giorno in giorno. Diffusione a macchia d’olio a Gerusalemme. Sale il numero dei morti. Ritorno all’emergenza. Crepe nella maggioranza e Governo in cortocircuito. Intanto, Netanyahu oltre al Covid deve fare i conti con la magistratura in un aula di tribunale: aperta la fase processuale dei casi penali dove è incriminato per vari reati, tra questi la corruzione. Troppo anche per il longevo mago della Knesset, che perde consenso nella sua base. Mentre, l’onda “rivoluzionaria” incombe su Balfour street, residenza del primo ministro. I cancelli della “Reggia di Versailles” israeliana, simbolo della monarchia di Netanyahu, sono assediati da manifestanti che, almeno apparentemente, non si accontentano delle brioche.

ADDIO AL VATE DELL’ANTIFASCISMO STERNHELL

“Fondamentalmente il Sionismo è nato con lo scopo di riportare il numero più alto possibile di Ebrei in terra d’Israele aspirando ad uno stato indipendente dalle caratteristiche simili a quelle di ogni stato nazionale dell’Europa, che era allora il modello dei primi sionisti. Il significato del Sionismo non è cambiato, ma la Guerra dei Sei Giorni e la conseguente occupazione del West Bank, hanno posto questa ideologia di fronte a nuove e difficili domande: è giusto, necessario e degno che lo stato nato dallo sforzo del Sionismo, domini un altro popolo? Personalmente penso che al Sionismo, nato per liberare il popolo ebraico, sia vietato di dominare un altro popolo ed è su questo punto che verte la discussione che è così viva e profonda nella società israeliana: sulla scelta fra il “Sionismo portatore di libertà” e il “Sionismo dominatore”.” Sono le parole di Zeev Sternhell, storico israeliano. Militante del movimento pacifista e insignito del premio Israele per le scienze politiche nel 2008. Mentore della sinistra, è opinionista per vari quotidiani, commentatore attento e critico alle problematiche di Israele. “Sulla questione del futuro del Sionismo, la società israeliana è divisa circa a metà e le recenti elezioni hanno ancora una volta confermato questo fatto. La vittoria di cui tanto si parla è un risultato personale di Netanyahu che è riuscito a convincere gli elettori tradizionali della destra a convogliare sul suo partito, il Likud, i voti che precedentemente erano stati distribuiti fra i vari partiti di questo raggruppamento. Anche nella sinistra il partito laburista si è rafforzato a discapito dei partiti che gli sono ideologicamente più vicini. I due raggruppamenti – quello della destra e quello della sinistra – escono da queste elezioni, ancora una volta, come entità di dimensioni simili, con un leggero vantaggio per la destra. Alla domanda su dove può portare questa polarizzazione della società israeliana, le devo rispondere purtroppo che sono sempre meno ottimista. Anche se questa maggioranza della destra ha margini minimi, rimane ancora maggioranza e permetterà al “Sionismo dominatore” di rimanere al potere, di perpetuare la situazione in cui Israele è democrazia per noi stessi ma non per i Palestinesi, di mantenere l’occupazione dei Territori e di continuare a colonizzare le terre dei Palestinesi e a tenerli in una forma di apartheid. Temo che il nuovo governo riproporrà la “Legge sulla Nazionalità”, che ha in sé il potenziale di discriminare gli Arabi israeliani, cercherà di ridurre al minimo l’influenza della Corte Suprema [che in Israele ha anche funzione di Corte Costituzionale n.d.r.] e in generale di influire sugli orientamenti educativi, culturali e mediatici sostenendo che non riflettono e anzi contraddicono il volere democraticamente espresso dal popolo nelle elezioni. A questo si sta avviando la società israeliana e la mia paura è che un numero sempre crescente di persone e in particolare di giovani, si chiederà se questo è veramente il paese in cui vogliono continuare a vivere.” Secondo lo studio della ong Peace Now il 2014 è l’anno dei record di gare d’appalto israeliane nei Territori Palestinesi Occupati della Cisgiordania e Gerusalemme. I bandi per costruire nuove unità abitative sono stati 4.485 con una crescita annuale dei coloni in territorio palestinese del 5,5%. L’espansione coloniale ha copiato per certi versi il modello di radicamento nel territorio dei pionieri kibbutnik, ma con una filosofia assai diversa. “C’è una forte somiglianza fra i due fenomeni, soprattutto per la assoluta sproporzione fra le dimensioni numeriche e la reale influenza politica. Tutte le organizzazioni cooperativistiche insieme, nel loro periodo di maggiore espansione, non hanno mai superato il 6-7% della popolazione israeliana. Le persone che vivono oggi nei territori al di là della linea verde sono circa 350.000 ma per la stragrande maggioranza di loro si tratta di una scelta economica, fatta per sfruttare le facilitazioni fiscali e i ridotti costi abitativi e dell’edilizia. I coloni “ideologici” sono poche decine di migliaia di persone che rappresentano una percentuale minima della popolazione israeliana ma che sono rappresentati nell’ambito della destra da un intero partito (Habayt Hayeudi) e dalla presenza come forza secondaria di sostenitori anche in tutti gli altri partiti della destra. E’ una forza che viene dalla propria ideologia assoluta, incrollabile, dalla certezza di essere nel giusto, senza dubbi. Tutto quello che manca da anni alla sinistra”. Nel settembre del 2008 il professore Sternhell è rimasto ferito in un attentato contro la sua persona. La matrice politica dell’azione terroristica risale alle frange dell’estrema destra israeliana. Il grave crimine non ha tuttavia smussato la passione civile di Sternhell, tutt’altro. “La legislazione influenzata e incoraggiata dalla “rivoluzione costituzionale” di Aharon Barak negli anni novanta, ancor prima che fosse scelto come Presidente della Corte Suprema, definiva Israele come stato ebraico e democratico in cui la maggioranza è ebraica e il sistema democratico assicura che tutti i cittadini godano degli stessi diritti. Quello che la Legge sulla Nazionalità farà, se verrà approvata, è stabilire l’esistenza di due comunità – una ebraica nazionale, l’altra civile più estesa, comprendente tutti gli altri, compresi gli Arabi. In caso di contraddizione o scontro fra gli interessi delle due comunità, quella nazionale ebraica godrà automaticamente della preferenza. La “nazionalità ebraica” diventerebbe una categoria giuridica alla quale la stessa Corte Suprema sarebbe sottoposta. Quello che farà la differenza nell’operato del prossimo governo sarà la omogeneità o meno su posizioni di destra. Se non ci sarà qualcuno ad arginare queste iniziative, come è stato con Lapid e la Livni negli ultimi governi, questa legislazione prenderà corpo e metterà in serio pericolo la democraticità di Israele.” Tra il 1990 e il 2000 approdarono in Israele ottocentomila cittadini dell’ex Unione Sovietica. Il primo mezzo milione si riversò nel paese nel giro di appena tre anni. Nel loro complesso determinarono un incremento demografico di circa un quinto rispetto alla popolazione israeliana di fine anni Novanta. Il direttore dell’Agenzia ebraica, l’ente che si occupa di accogliere e favorire l’integrazione in Israele degli ebrei che scelgono di fare l’aliyah (andare a vivere in Israele) ha dichiarato che dal 2010 al 2014 sono arrivati in Israele circa 100 mila nuovi immigrati, ben 245 mila negli ultimi dieci anni. Dati alla mano sempre più ebrei lasciano l’Europa dove la convivenza peggiora anche a causa del perdurare del conflitto israelopalestinese. “Non penso che l’immigrazione dall’Europa assumerà le proporzioni di un’ondata, certo non come quelle che abbiamo conosciuto dopo la fondazione dello Stato nel 1948 o con l’arrivo di oltre un milione di Russi dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Da una parte gli Ebrei europei hanno radici molto ben piantate nei paesi in cui vivono e dall’altra l’antisemitismo in Europa non ha ancora raggiunto proporzioni che spingano gli Ebrei a fuggire frettolosamente dalle proprie case e attività. La crescente presenza e influenza islamica potrebbe fare da ulteriore catalizzatore, laddove i musulmani identificano gli Ebrei con la politica di Israele e questi diventano “le vittime” dell’odio nei confronti dello stato ebraico. Siamo insomma di fronte a un paradosso e cioè che Israele non solo non è una soluzione per questi Ebrei, ma diventa anche un problema. Credo comunque che arriveranno alcune decine di migliaia di persone, per lo più appartenenti agli strati sociali medio-bassi, molti di questi religiosi. Un pubblico già ben identificato con il centro destra, che non avrà nessun problema ad inserirsi in questa fascia politica con la cui ideologia si riconosce. E la destra ne uscirà ancora più rinforzata.”

Passo tratto da Voci da Israele, L’Espresso ebook, 2015.

Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi

BIBI, IMPUTATO E PREMIER

Israele ha aperto le aule del tribunale all’uomo più potente, Benjamin Netanyahu. Per la prima volta nella sua storia il Paese vede alla sbarra il suo primo ministro in carica, imputato in tre casi di corruzione, frode ed abuso d’ufficio. “Non ci sarà nulla, perché non c’è nulla” ripete il re di Gerusalemme, proclamando la sua innocenza. In un processo che ha richiesto mesi e mesi d’investigazioni, raccogliendo prove e testimonianze per poi approdare all’incriminazione da parte del procuratore generale Avichai Mandelblit.

L’evento più atteso, posticipato a causa della pandemia, è iniziato in concomitanza con la nascita dell’esecutivo formato insieme all’ex avversario Gantz, che dopo avergli dato battaglia in tre elezioni consecutive ha accettato l’alleanza e la pace. Netanyahu incassa la maggioranza nella Knesset e sfida la giustizia. “Sono accuse inverosimili”, che “costituiscono un tentativo di golpe” è stato il messaggio del premier prima di affrontare i giudici. Il falco della politica ha impostato la sua carriera, vincente e longeva, facendo buon uso del vittimismo. Fu così quando, nell’era pre internet, scoppiò lo scandalo di una relazione extraconiugale. Era il 1993 e “Bibi” Netanyahu correva per le primarie del partito, la notizia della liaison, che la stampa definì il “Bibigate”, non intaccò l’immagine del nascente leader, vittima a suo dire: “di un crimine senza precedenti nella storia della democrazia”. Alla fine gli iscritti al Likud lo elevarono ad indiscusso signore della destra, e da quel momento si adoperò per plasmare la macchina del movimento a sua immagine. Un partito divenuto personale, con un leader nazionalista che spesso giocherà la carta propagandistica della cospirazione ordita contro di lui: dalla sinistra, dai media, dai generali, dagli arabi e infine anche dalla magistratura. Netanyahu è un personaggio talmente divisivo che ha spaccato il paese in due, pro o contro la sua figura. Gran parte degli israeliani si è già espressa sul processo in corso senza attendere la sentenza, in un caso penale dalle potenziali ripercussioni sia sul tessuto sociale che sui futuri assetti democratici dello Stato.

Quanto in Netanyahu ci sia di un altro precedente epico scontro della politica con la magistratura, quello di Berlusconi, è presto detto. Sono incantatori della comunicazione. In entrambi i romanzi i nemici sono le “toghe”. Nella narrazione applicano il postulato del manifesto populista: “I cittadini hanno il diritto a esser governati da chi hanno scelto democraticamente”. Hanno la stessa linea di apologia: “indebite ingerenze della magistratura su altri poteri dello Stato costituiscono una vera emergenza democratica”. Sono due personalità con un’unica terapia d’urto: estirpare il cancro della magistratura. Sfruttano il medesimo mezzo per ottenere l’immunità: le leggi in parlamento. E professano l’identica visione della realtà: “Qui è tutto paradossale”. Per non parlare delle rispettive entrature alla Casa Bianca, Berlusconi con Bush, Netanyahu con Trump. Amicizie che contano.

BIBI, GANTZ E IL GOVERNO

Israele riapre palestre, mercati e centri commerciali, dopo 6 settimane di chiusura da Covid19. E introduce restrizioni: ingressi limitati in base al volume degli spazi, distanza minima di due metri tra le persone in coda, obbligo d’indossare la mascherina in pubblico. Il paese che convive da anni con la paura del terrorismo, e dei conflitti, ha imboccato la strada della ripresa, rapida ma controllata. Intanto, “Bibi” Netanyahu si intesta la “vittoria” sia contro la pandemia che quella politica per la nascita di un governo d’emergenza. Un esecutivo “benedetto” persino dalla Corte Suprema, che ha rigettato, con verdetto unanime, due petizioni: la prima che chiedeva di riconoscere incompatibile Netanyahu, a processo per corruzione, con l’incarico a premier. E la seconda che metteva in dubbio la correttezza dell’accordo di coalizione tra i due principali partiti nella Knesset, Likud e Kahol Lavan. Cadono, quindi, gli ultimi ostacoli per il ritorno sul trono di Gerusalemme del falco della destra, dopo un lungo periodo in cui ha esercitato il ruolo di primo ministro facenti funzioni.

Netanyahu, il mago della politica israeliana, ha archiviato tre elezioni inconcludenti nell’arco di un anno e ha trovato una soluzione, a lui congeniale, per uscire dallo stallo politico. Scardinando il campo avversario, ha saputo convincere il rivale “Benny” Gantz ad un patto di rotazione al vertice. Il leader del Likud e più longevo premier di Israele, giurerà il 14 maggio, suggellando il più corposo governo della storia, 36 ministri e 16 sottosegretari. Una maggioranza assai variegata che include: partiti religiosi, destra populista, pezzi del centro e una parte della sinistra. Fuori dalla porta, non per motivi ideologici, la destra nazionalista. Come fuori anche la sinistra radicale, i partiti arabi e i liberali di Lapid che non hanno seguito Gantz, in quello che ritengono un abbraccio mortale con il nemico, scindendo il movimento. Il carrozzone messo su da Netanyahu ridisegna completamente il quadro politico, mettendo, almeno apparentemente, fine al periodo dei due blocchi contrapposti. Chi vede raggiunto l’obiettivo prefissato è il presidente israeliano “Ruby” Rivlin, da sempre promotore delle larghe intese e prossimo al termine del mandato, luglio 2021. Dietro le quinte dell’intesa si è prodigato anche l’inquilino della Casa Bianca. Donald Trump è interessato a veder fiorire la sua idea di pace tra palestinesi ed israeliani. Un piano sfarzoso e surreale, che Gantz e Netanyahu hanno promesso di voler mettere in atto presto, intanto con l’annessione di parte dei territori palestinesi lungo la valle del Giordano.

Nonostante sia stata l’emergenza coronavirus a forzare i tempi per la nascita di un governo di unità nazionale, anime così diverse continueranno a trovare terreno di scontro. Vecchi e mai sopiti rancori esploderanno prima o poi tra i banchi della Knesset. E non è detto che, in uno scenario favorevole, Netanyahu decida di puntare direttamente alla presidenza di Israele.

IL MEDIORIENTE E IL VIRUS

Politica, religione e il coronavirus in Medioriente. A Gerusalemme al Santo Sepolcro è permesso l’ingresso solo ai “custodi” rappresentanti delle diverse dottrine cristiane, che “mantengono” lo status quo del luogo. Saltata la tradizionale processione della domenica della palme sul Monte degli Ulivi e rinviata la messa crismale, a Pasqua le porte della Basilica,che secondo la tradizione ha ospitato le spoglie di Cristo, resteranno chiuse. Intanto, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, è di nuovo in quarantena.
La decisione del primo ministro in carica è stata presa dopo che il ministro della Sanità, il rabbino ortodosso ed uomo di punta del partito Yahadut Ha Tora Yaakov Litzman, è risultatopositivo al virus. Israele conta 42 morti e si sfiorano 7.600 casi. I dati del ministero della Sanità parlano di 115 pazienti in condizioni gravi e di 427 israeliani guariti dopo aver contratto la Covid19. Ma i numeri continuano inesorabilmente a salire. L’isolamento del leader della destra cade proprio nel momento di frenetiche consultazione per formare un governo di unità nazionale in l’ex rivale Benny Gantz. E l’introduzione di misure di contenimento più stringenti (incluso l’impiego dei servizi segreti nel tracciamento dei contagiati) trova l’opposizione, anche violenta, della comunità degli ebrei ortodossi, restii a rinunciare alle proprie abitudini.
Nelle città e nei quartieri degli haredim, Covid19 cresce tre volte di più rispetto al resto di Israele. Intanto è stata sigillata dai militari Bnei Brak. In questa città con 200mila abitanti, poco distante da Tel Aviv, la cui stragrande maggioranza dei residenti osserva rispettosamente le leggi talmudiche, è stato riscontrato il più diffuso contagio: il 38% dei cittadini testati è risultato positivo a Covid19. Mentre, a pochi chilometri di distanza, nella Striscia di Gaza,la dittatura di Hamas impone di posticipare i matrimoni. E l’Autorità Nazionale palestinese, che governa in Cisgiordania, ha imposto la chiusura dei territori: Betlemme, culla della Natività, è sigillata da giorni.
In Medioriente il primo focolaio è esploso ai margini della regione, in Iran. L’epicentro del contagio è stata la città santa sciita di Qom, cuore della rivoluzione dell’Ayatollah Khomeyni. Probabile che il virus sia stato veicolato da addetti alla costruzione della moderna rete ferroviaria ad alta velocità, oppure tramesso da un pellegrino: il santuario di Fatimah al-Masumah attira fedeli musulmani da tutto il mondo, inclusa la Cina. Teheran ha ufficialmente confermato i primi decessi da coronavirus il 19 febbraio scorso. Una settimana dopo casi erano segnalati in 24 delle 31 province. L’onda del contagio si era estesa anche fuori dal territorio nazionale. Similmente anche in Bahrein, Oman, Kuwait, Qatar e Arabia Saudita gli infetti avevano trascorso un periodo in Iran.
Attualmente, in Giordania è esploso il caso delle mascherine non a norma. Mentre, in Iraq il personale medico protesta per la mancanza di medicinali e ventilatori. E in Libano, dove il primo paziente positivo è stata una donna appena rientrata da Qom, sono i camionisti a criticare il governo. Il Kuwait ha “richiamato” 17mila insegnanti egiziani che hanno lavorato nel Paese, in passato. L’Arabia Saudita ha posto in quarantena l’area di Qatif, dove gli sciiti sono la maggioranza. E il ministero della Sanità ha invitato coloro che si erano recati in Iran a dichiararlo alle autorità. Pur avendo violato la legge che vieta di visitare l’Iran, decine di persone hanno risposto fornendo le generalità, e di fatto autodenunciandosi.