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I PREDATORI DELLA CULTURA

Inarrestabile lo scempio alla storia che compie impunemente e quotidianamente l’esercito del Califfato in Medioriente. Barbaramente in queste ore hanno raso al suolo il monastero di Mar Elian, in Siria. Poche ore dopo l’uccisione del più noto archeologo locale. È uno scenario di pura follia che si allarga a tutta la regione. Abbiamo contattato a Gerusalemme, dove lavora, Carla Benelli, storica dell’arte che da anni è impegnata in campagne di scavi e restauro in Terra Santa: “A 82 anni Khaled al-Asaad era l’archeologo siriano che più di tutti conosceva il sito di Palmira. Era in pensione ormai, dopo essere stato il direttore del sito archeologico per quaranta anni fino al 2003, ma continuava a studiare e promuovere il sito, frequentando conferenze internazionali e scrivendo articoli e pubblicazioni scientifiche. La sua uccisione brutale sembra confermare che l’Isis intende terrorizzare il personale che ancora lavora nei siti archeologici per conto del governo.” Lo stato del terrore allarga i propri confini, lambisce la Palestina. Miete nuove vittime nel nome di una ideologia aberrante. Sfregiando la storia nel tentativo di cancellarla per sempre. Le bandiere nere che sventolano sono il segnale della pulizia etnica culturale in corso, dove vengono issate al cielo è la fine. “È molto difficile valutare in queste condizioni i reali danni causati dalla guerra al patrimonio culturale siriano. C’è molta propaganda intorno alla questione, e non è possibile stimare con precisione e oggettivamente il livello dei danni in questo momento. Sembra però purtroppo confermato che siano ingenti.” Come chiarisce Carla Benelli siamo di fronte a crimini immani e la risposta per preservare, salvare, il patrimonio non è proporzionata alla violenza in atto. Eppure per anni proprio quei luoghi hanno visto padre Michele Piccirillo, archeologo francescano e biblista scomparso pochi anni fa, promuovere la tutela dei beni artistici in tutta la Terra Santa: “Come sempre molto del suo impegno era rivolto alla formazione del personale locale, proprio quel personale che in questo momento è sotto attacco. Non ci soffermiamo mai abbastanza a valutare la perdita enorme alle risorse umane oltre che materiali che questa guerra sta causando alla Siria. I ragazzi e le ragazze formate dai progetti sostenuti da padre Michele condividono con i connazionali una situazione di vita drammatica. Alcuni di loro sono dovuti fuggire all’estero, altri sono ancora in servizio e rischiano la vita ogni giorno, per cercare di proteggere un patrimonio dal valore immenso per tutta l’umanità.” Carla in qualità di assistente di padre Michele, ha preso parte a vari scavi, da Sebastia a Gerico, dal Monte Nebo a Damasco. Del team di padre Michele ha fatto parte anche Osama Hamdan, architetto palestinese e professore universitario, al quale abbiamo chiesto di commentare il rischio che incombe tragicamente sulla Palestina: “Il patrimonio architettonico palestinese è enorme, però negli ultimi anni subisce un attacco feroce e veloce. Sia i centri abitati che i villaggi sono in pericolo. Il nostro patrimonio appartiene a varie epoche, una stratificazione di civiltà dalle più antiche della regione fino al periodo ottomano. La maggior parte è in abbandono e a rischio di perdita. Purtroppo finora l’Autorità Palestinese non è riuscita a disegnare una strategia per salvare questo patrimonio. Non siamo nemmeno consapevoli della sua importanza, del suo valore storico e del ruolo fondamentale che potrebbe svolgere per salvaguardare la nostra comunità anche oggi. Se la situazione dovesse continuare in questo modo, potremmo perdere una grande parte del nostro patrimonio.” Per salvaguardare i beni storici in Siria è stato fatto troppo poco, praticamente nulla. Domani il bersaglio della furia dei predatori potrebbe diventare la Palestina, evitare che ciò accada è impedire un nuovo disastro, una catastrofe mondiale: “È necessario investire la massima attenzione sul settore, rafforzare le risorse umane, il rapporto con le comunità locali, vigilare sull’applicazione delle leggi internazionali, tenendo conto che la maggior parte dei reperti archeologici del Medioriente viene comprato da istituzioni e privati in Occidente. L’attacco dell’Isis al personale siriano va letto anche in questa ottica, l’indebolimento delle istituzioni locali permette al traffico internazionale di agire indisturbato. Fino a quando il traffico illecito di reperti archeologici, anche da parte dell’Isis, non viene bloccato a livello internazionale, sarà inutile scandalizzarsi e emettere comunicati di condanna.” La richiesta del sostegno internazionale è il grido di allarme per un Occidente sino ad oggi sordo e lontano.

Bandiera nera su Palmira, il terrore è più vicino

Palmira è caduta in mano allo Stato islamico di Al Baghdadi. La bandiera nera sventola sopra il patrimonio architettonico e culturale del mondo, luoghi memoria dell’umanità, culla della cultura ellenistica. Un sito archeologico unico al mondo. La “Venezia del deserto” è in balia di un esercito votato alla morte e alla distruzione totale, l’orda degli incappucciati del Daesh sfila nelle strade dell’antica città e punta verso la capitale, Damasco. La difesa dei soldati filo governativi si è come piegata, si è sfaldata sotto l’attacco delle ben armate ed equipaggiate milizie fondamentaliste. Il collasso della linea del fronte, la rotta e la fuga degli uomini fedeli a Bashar al Asad ha lasciato il campo libero alle forze del Califfato. La sconfitta è pesante, anche sul piano mediatico. L’ingresso delle truppe vittoriose dell’ISIS nell’oasi della “Palma”, la parata militare, le solite assurde immagini di militari e civili nemici catturati che le televisioni ci hanno fatto vedere in queste ore, giustiziati e sgozzati sono il segno evidente della catastrofe. I video postati sul web, altre atrocità disumane mostrate al mondo. E ora il rischio che la furia si abbatta sul parco patrimonio dell’Unesco, distruggendo, devastando, saccheggiando tutto come purtroppo è già accaduto a Mosul, Nimrud e Hatra. La perdita di Palmira, in aramaico Tadmor, sarebbe un danno enorme, incalcolabile. Una storia millenaria è, in queste ore, ad un passo dal baratro, vittima della brutale violenza dei tempi odierni. Venerdì mattina il governo ha fatto “oscurare” la zona di Palmira, tagliando i collegamenti telefonici e internet. Nell’era della globalizzazione, della massificazione mediatica la battaglia è diventata silente. Eppure anche la notizia, solo un anno fa, della nascita dell’autoproclamato Califfato non aveva avuto grande risonanza, provocando qualche stupore ma nulla di più. In dodici mesi non è mancato giorno che nei nostri media non venissero riportate notizie del terrore jihadista. Una scia di sangue che scorre dal Medioriente all’Africa, sino all’Europa. E che fa paura indistintamente a cristiani, musulmani ed ebrei. Pochi giorni fa Sergio Minerbi, giornalista ed ex diplomatico israeliano, in un lungo incontro nella sua abitazione a Gerusalemme commentava: “L’ISIS può diventare una cosa preoccupante, è sbagliato sottovalutarlo. Il mio metro di giudizio su questa questione è l’Arabia Saudita, se loro si allarmano io devo farlo di più.” Prima degli emiri e del Mossad prontamente si è mosso Obama. Inquietati dall’espansione a macchia d’olio della zona d’influenza del Califfato nella regione gli USA hanno rifornito con armi pesanti ad Iraq, Arabia Saudita e Israele. “La Siria è la cartina tornasole del Medio Oriente.” Dice Minerbi. Il Paese è in guerra civile dal 2011. I morti sono centinaia di migliaia. I rifugiati milioni. Un conflitto dalle dinamiche regionali e con attori internazionali: Libano, Turchia, Iran e Paesi del Golfo. In Medioriente si disegnano nuovi confini, in un risico drammatico a cui assistiamo inermi. Per Minerbi il gioco politico è estremamente intrigato: “Asad è meno pericoloso del Califfato ma essere alleato dell’Iran lo rende poco digeribile ad Israele. In fondo una quasi alleanza con Asad in chiave anti ISIS a mio avviso sarebbe la scelta migliore.” Si dice che il nemico del mio peggior nemico sia il mio migliore amico. Nei giorni passati le bandiere dello Stato islamico sono state issate nel Golan a pochi metri dalla rete di recinzione tra Israele e la Siria. Netanyahu e l’Occidente tergiverseranno ancora? L’Europa, dove all’azione dello Stato Islamico non c’è stata una vera e unita comune reazione, non è un esempio confortevole. “Ho visto anni fa, con i miei occhi quando ero diplomatico quello che la CEE poteva o non poteva fare – rispetto ai veti dei singoli Stati – e oggi noto che l’Unione Europea non può fare molto.” L’ex uomo della politica estera di Israele, colui che ha costruito e saldato i rapporti tra Gerusalemme e Bruxelles, non è ottimista. “Nei mesi passati c’è stata un’alzata di scudi eccessivamente misteriosa.” Se le colonne di Palmira dovessero rotolare sotto i colpi delle sigle del terrore il rumore sarebbe assordante per le nostre coscienze.

#SAVEYARMOUK

Siria. Periferia di Damasco. Quartieri proletari della capitale. Nel campo profughi di Yarmouk, cuore della comunità palestinese in Siria che contava 150 mila presenze. “Mancano le condizioni minime per poter fornire assistenza umanitaria in una situazione d’emergenza totale.” Sono state le parole con le quali il portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite Chris Gunness ha fotografato la realtà, aggiungendo: “Questa situazione mette a serio rischio la vita di 18 mila persone, donne e bambini palestinesi e siriani.” Ma vediamola meglio questa realtà dove migliaia di palestinesi sono intrappolati nel campo profughi, vittime del conflitto e delle barbarie dell’ISIS.
In Medioriente in questo mese di aprile la primavera tarda ad arrivare e le condizioni climatiche come quelle umanitarie girano al peggio: cibo, acqua sono razionati da giorni. Per scaldarsi e cucinare vengono bruciati mobili e vestiario, c’è chi ha dovuto dar fuoco al letto, alla porta di casa, alle finestre, sedie e quant’altro possa alimentare le fiamme. L’acqua scarseggia, il freddo inverno con temperature sotto lo zero ha fatto esplodere le tubature, al momento in media per famiglia sono disponibili 20 litri di acqua ogni cinque giorni. Interi edifici sono stati danneggiati gravemente nei bombardamenti. Mancano i medicinali di prima necessità. L’allarme viene dall’agenzia per le nazioni unite UNWRA, che ha lanciato una campagna sui social network, #SaveYarmouk chiedendo urgentemente l’apertura di un corridoio umanitario. La comunità internazionale ancora una volta tarda ad intervenire e la situazione è insostenibile: siamo al limite di una catastrofe umanitaria. Dal 28 marzo, infatti, gli operatori delle Nazioni Unite non sono in grado di distribuire generi di prima necessità nell’area di Yarmouk. Il campo profughi è tagliato fuori dal mondo, assediato dalle forze dell’ISIS, a nulla è valso il recente appello ad interrompere le ostilità e rispettare gli obblighi di garantire la protezione dei civili. La guerra del Califfato non prevede il rispetto del genere umano, purtroppo l’abbiamo scoperto noi europei anche a nostre spese e al momento un intervento internazionale pare l’unica soluzione per proteggere i civili.
Agenzie d’informazione internazionali in queste ore hanno annunciato che le principali fazioni palestinesi presenti in Siria hanno raggiunto un accordo e concordato di operare congiuntamente con l’esercito governativo siriano contro l’esercito dell’ISIS. Mentre da Ramallah l’OLP ha rifiutato di prendere parte in un’azione armata di qualsiasi tipo. Intanto guerriglieri palestinesi, per proteggere i propri civili, sono impegnati in una resistenza strenua, casa per casa, strada per strada. “Abbiamo deciso di avere una cooperazione permanente con il governo siriano.” Ha detto Ahmed Majdalani inviato speciale del presidente palestinese Abu Mazen a Damasco che poi ha aggiunto: “lavoreremo con la Siria per ripulire il campo profughi dai terroristi”. La smentita è giunta da Ramallah poco dopo le dichiarazioni di Majdalani, confermando una spaccatura netta all’interno del fronte palestinese, vedremo nelle prossime ore quanto la posizione presa dall’OLP verrà accettata dai palestinesi che vivono in Siria. Sin dall’inizio del conflitto le fazioni palestinesi avevano optato per tenere una posizione di neutralità. Non è servito a nulla. La guerra non risparmia nessuno in questa regione, in particolare chi chiede di essere lasciato vivere in pace. Secondo le prime stime sarebbero almeno 200 i morti per malnutrizione e mancanza di medicinali a Yarmouk. Una cinquantina invece i guerriglieri palestinesi uccisi in combattimento dalle forze dell’ISIS in questi giorni. “Gente innocente è utilizzata come scudi umani dalle parti in conflitto” ha affermato Federica Mogherini, Alto rappresentante per gli Affari Esteri dell’Unione Europea. Mentre e non va sottovalutato, nella Striscia di Gaza avvenivano le prime manifestazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi di Yarmouk.

Free Kobane, oltre il fumetto

Kobane è stata liberata, l’Isis è stato respinto. Era una notizia attesa. E auspicata. È una di quelle notizie che andrebbero festeggiate stappando una bottiglia, la migliore della vostra cantina. Questa vittoria per onore della cronaca era stata annunciata su Internazionale in un fumetto, l’autore Zerocalcare. Il titolo del fumetto è Kobane Calling, una storia raccontata in presa diretta con disegni in bianco e nero che avevano premunito il finale positivo all’assedio alla città curda in Siria. Per chi ama il fumetto il parallelismo con il maestro Joe Sacco, che ha segnato e disegnato il mondo e le sue atrocità, è stato immediato. Fumetti politici e politicizzati, di denuncia quelli di Sacco. Zerocalcare invece deve la sua fama a tutt’altro approccio, è autore della striscia “demenziale” Neet Kidz, ma con questo fumetto Zerocalcare entra di diritto nella “scuola” degli inviati di guerra, in questo caso senza microfono e telecamera. Tuttavia la differenza di Zerocalcare con Sacco non è solo nel tratteggio ma nello schema generazionale, nella forma della ricerca e nella filosofia: “la realizzazione di questo fumetto ha richiesto alcuni esercizi di sintesi che ne alterano la fedeltà alla realtà, lo dico per sincerità”. È quanto tiene a sottolineare lo stesso Zerocalcare. In Kobane Calling non è rappresentata violenza, non c’è sangue, non è dipinta la carneficina del conflitto, ma è raccontata la lezione della guerra con i suoi suoni e parole. Intense quelle dei giovani, anziani, uomini e donne curdi: “sono quelli dell’Isis a non essere musulmani.” Zerocalcare è andato in guerra per poi narrare la sua guerra, quella di una persona estranea a quel contesto folle, all’orrore dell’odio. L’artista lentamente, pagina dopo pagina, ha preso una posizione: “Da qui non si passerà”. Nella sua guerra Zerocalcare ha saputo rappresentare le assurdità delle geometrie in gioco, dove non c’è pallone che rimbalza da una parte all’altra ma il fuoco delle armi: “a cucchiaio da sinistra a destra è Isis. Da destra a sinistra siamo noi. Basso-basso raso terra, è turchi.” In una guerra globale, talmente vicina che la distanza dalla pace alla guerra “saranno tre fermate di metro tipo Rebibbia – Santa Maria del Soccorso”. I disegni di Zerocalcare hanno lo splendore di un manifesto contro il male, un’opera che smuove la nostra coscienza. Dove le paure di Zerocalcare non possono essere eliminate ma solo affrontate e sconfitte.

Vignette che fanno imbestialire

Nel freddo gennaio del 2006 il giornale danese Jillands-Posten pubblicava le vignette “blasfeme” che innescarono la reazione del mondo islamico. In Cisgiordania per alcune ore si scatenò una vera e propria caccia all’uomo. Cuore della protesta la città di Hebron. La furia cieca della folla si rivolse contro la base della forza temporanea degli osservatori internazionali (TIPH), dove avevano trovato rifugio molti cooperanti europei. Gli assediati nell’edificio, tra cui il nucleo di carabinieri sotto il comando del colonnello Zubani, respinsero a mani nude o con l’ausilio di estintori gli aggressori che tentavano di entrare. Solo grazie all’intervento dei blindati israeliani fu possibile ristabilire la calma ed evitare uno spargimento di sangue. In queste settimane dell’inverno 2015 sfilano in migliaia contro Charlie Hebdo in Cecenia, Pakistan, a Gaza e anche a Ramallah e Hebron. Nelle principali città della West Bank, in quelle che erano un tempo le roccaforti di Fatah centinaia di cartelli inneggianti all’Islam, bandiere nere con scritte bianche. Le manifestazioni non sono state spontanee, ad indire la protesta è stato il Liberation Party, un gruppo islamico. Durante il lungo corteo la folla ha intonato cori che osannavano e incitavano al Califfato. È il segno dei tempi. L’Isis allarga la sua sfera d’azione, prende forma e spazio nella società palestinese. Per ora è solo propaganda contro un giornale satirico francese, ma domani cosa succederà?