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6 GIORNI

Giugno 1967. La guerra per rompere l’anello imposto a Israele dagli stati arabi è iniziata da poche ore e già l’esito è scontato. Nel Sinai la disfatta dell’esercito egiziano è catastrofica, i soldati del “faraone” Gamal Abdel Nasser sono allo sbando completo. Le divisioni di fanteria e i corazzati non hanno retto l’urto contro la tecnica e tattica dei comandi di Tel Aviv. Nei giorni a seguire l’esercito di Tzahal avanzerà sul fronte meridionale verso il canale di Suez e su quello nordorientale nel Golan in direzione di Damasco, praticamente indisturbato. Gli aerei con la stella di Davide hanno assunto la supremazia in cielo, grazie ad un attacco preventivo, chirurgico. Con un blitz preparato e lungamente studiato nei mesi precedenti, messo in atto nei minimi dettagli dal ministro della difesa Moshe Dayan e dal capo di stato maggiore Yitzhak Rabin, hanno dilaniato l’aviazione avversaria.

La conquista di Gerusalemme est arriva la mattina del 7 giugno con la ritirata della Legione araba fedele al re Hussein di Giordania. L’intervallo di potere della casa Hashemita in Palestina termina disastrosamente. La bandiera di Israele sventola sulla Spianata delle Moschee, prima di venire “diplomaticamente” ammainata. Le immagini di repertorio ritraggono le emozioni dei giovani e sorridenti soldati con la divisa verde al Muro del Pianto. Baciano devotamente la pietra bianca del perimetro dell’antico Tempio, in un clima di festa e canti. Nel volto di quei militari prevale un trasporto mistico, che racchiude la sensazione dell’intromissione divina, la Shekinà, nella battaglia. Coloro che volevano, con l’aiuto di Allah, spazzare via dalla Terra il fazzoletto di Israele avevano perso di nuovo.

Dopo 6 giorni di guerra, il 10 giugno di 50 anni fa il conflitto è praticamente concluso, inizia allora per Israele una simmetria che segnerà la sua storia contemporanea. È l’espansione in Palestina, prima dettata da ragioni strategiche di difesa e sicurezza, poi trasformata in status quo ed un domani forse in annessione.

Il 22 novembre dello stesso anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva la risoluzione 242, il pilastro della “pace giusta e duratura”. Questa volta oltre agli stati arabi è anche il governo israeliano a decidere di non ascoltare. Continuando il processo di riduzione drastica dello spazio fisico dei palestinesi, disegnando militarmente e politicamente una cartina destrutturata della Palestina, un puzzle di scavi archeologici, riserve naturali, zone di tiro, avamposti militari, muri e reticolati, strade e insediamenti coloniali. E che porterà con gli Accordi di Oslo alla “ghepardizzazione” dei Territori Palestinesi Occupati: divisione in tre diverse tipologie di aree di controllo.

L’assurdità ideologica che il diritto degli uni non è conciliabile con quello degli altri ha alienato entrambi. La filosofia israeliana del limite della pazienza e quella palestinese del vittimismo hanno ampliato la frattura tra i due popoli, oggi insanabile dal dilagare del jihadismo e del populismo. Il più martirizzato dei popoli e il più costantemente umiliato condividono il destino, tra muri di separazione o di sicurezza, tra check point o kamikaze: “una terra senza uomini per uomini senza terra” o “una terra senza diritti per un diritto alla terra”? La risposta è amara quanto i possibili scenari. Il primo, è che non avvengano cambiamenti “climatici”, in quel caso per i palestinesi sarebbe la strada di un lento ed inesorabile stato “soft” di apartheid. Nel secondo, e meno probabile, gli accordi porteranno ad uno stato binazionale. Nel terzo, con negoziati di compensazione, Gerusalemme diventa la capitale di due stati confinanti. Nell’ultimo gli stati arabi riconoscono Israele e aprono ai trattati, i palestinesi entrano in una sorta di confederazione, l’Egitto torna “ufficialmente” responsabile per Gaza e alla Giordania è “affidata” la West Bank. Ma su tutto potrebbe ancora prevalere l’estremismo.

I TERRORISTI DEL CALIFFO ALLE PORTE DI GERUSALEMME

Nel 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la risoluzione 181 con un piano di partizione della Terra Santa, nel tentativo di risolvere il conflitto tra arabi ed ebrei scoppiato nella regione: il mondo arabo scelse la risposta peggiore. Settant’anni dopo attendiamo ancora la nascita di uno stato palestinese: democratico, indipendente e sovrano. C’è qualcuno che crede che ciò possa avvenire nel 2017? Obiettivamente pensiamo che solo un miracolo possa appianare uno dei conflitti più lunghi della storia. La situazione politica interna alle due realtà, palestinese ed israeliana, è talmente e palesemente compromessa da non permettere spiragli positivi: la destra nazionalista israeliana al governo, le criticità di Fatah e la dittatura di Hamas a Gaza, la prospettiva del radicarsi dell’Isis, la visione di Trump.

Eli Kaufam editorialista del Jerusalem Post, recentemente ha scritto nel suo blog non un commento di fisica quantica, ma una riflessione filosofica sull’era che ci attende: «Possono causa ed effetto andare indietro nel tempo? Nella realtà delle cose può il futuro determinare il passato? …. Se il futuro fosse in grado di determinare il passato, allora con un futuro meraviglioso quello che ci attenderebbe sarebbe un presente radioso, perché abbiamo già visto il passato e non era così bello.»

Nel contesto della Terra Santa gli errori del passato, effettivamente, sono stati troppi, determinando il presente e il futuro: culturalmente ma sopratutto politicamente il mancato riconoscimento dell’altro, da entrambi le parti, è ancora un aspetto sconcertante della questione israelopalestinese. Sicurezza, diritti umani, confini definiti per due stati per due popoli sono sempre stati l’obiettivo primario della Comunità internazionale. La cartina geografica più diffusa della Terra Santa è ferma al ’67, attualmente quindi è obsoleta. A prescindere dal caso in cui si creino le condizioni per uno stato binazionale, che si opti per una sorta di stato federale o meno, ci vorranno intense trattative e lunghi trattati. Oppure ciò che ci aspetta sono barriere, occupazione e terrorismo? La matita che dovrebbe tracciare la linea di demarcazione tra palestinesi ed israeliani è oggi spuntata, e Trump è pronto a strappare i fogli su cui disegnare.

Nei prossimi giorni a lasciare un segno sul quadro mediorientale ci proverà il presidente francese Francois Hollande, lontano dalla ricandidatura ha deciso di affrontare, senza troppe pretese, il nodo gordiano del conflitto israelopalestinese, invitando a Parigi per il 15 gennaio i rappresentanti di 70 stati. L’iniziativa parigina è l’ennesimo tentativo di alimentare il percorso di due stati per due popoli. Un summit accolto favorevolmente da Abu Mazen, presidente senza consenso, ma non da Netanyahu, primo ministro in bilico. A Parigi non ci saranno strette di mano tra nemici. In realtà c’è però un certo interesse per quanto presenteranno le tre commissioni che da mesi lavorano ad una road map. Ciascuna analizzando una differente prospettiva: la struttura delle istituzioni palestinesi, il contributo economico, in particolare quello europeo, e infine la partecipazione della società civile al processo di pace. L’ultimo attentato sulla promenade di Gerusalemme, e la folla a Gaza in visibilio per il martirio dell’attentatore; le minacce alla giuria e le proteste di piazza al processo contro il soldato israeliano che freddò un prigioniero palestinese; le vignette pubblicate qualche giorno fa dal quotidiano Al-Hayat Al-Jadida che mostravano soldati dell’esercito israeliano uccidere Babbo Natale; i nuovi insediamenti israeliani. Dipingono un presente senza futuro.

BUS NUMERO 12

Gerusalemme ancora una volta piomba in una angosciante sciagura. Alla vigilia della Pesach, la Pasqua ebraica, poco dopo le 17.30 di un lunedì pomeriggio in una calda primavera, esplode un bus di linea: 21 persone ferite, alcune in gravissime condizioni. Tra queste il presunto kamikaze palestinese. L’attacco terroristico interrompe settimane di relativa calma, se di calma si possa mai parlare in Medioriente, dopo l’escalation, nei passati mesi, dell’Intifada dei lupi solitari i giovani “martiri” palestinesi ripongono il coltello e indossano le cinture esplosive, copiando l’esempio dei loro coetanei di Bruxelles e Parigi. L’attentato a Gerusalemme segna quello che viene commentato dagli analisti come “un salto di qualità del terrorismo palestinese”, ovviamente in negativo. In realtà è il ritorno ad una strategia “vecchia” che non si vedeva da anni, dalla Seconda Intifada e le bombe nei luoghi pubblici. Bus, bar, ristoranti, pizzerie, discoteche macchiati di sangue innocente, una lunga scia di morti, di lenzuoli bianchi a coprire i cadaveri che giacevano a terra. Ieri come oggi quando Israele è attaccato a Gaza si festeggia con pasticcini e canti. Nella striscia di terra più densamente popolata al mondo regna il fondamentalismo islamico di Hamas, alleato dell’Isis in Sinai nel nome della jihad: la guerra santa globale colpisce il vagone della metropolitana alla fermata del quartiere multietnico di Maelbeek e l’autobus numero 12 a Talpiot, periferia meridionale della città Santa. Luogo di centri commerciali, meccanici e carrozzerie dove quotidianamente palestinesi ed israeliani lavorano fianco a fianco e dove dividono la fila nei supermercati. “Dopo l’esplosione non si vedeva più niente era buio, c’era fumo ovunque. Mi sono messa a cercare mia figlia, l’ho trovata sdraiata a terra aveva tutto il corpo ustionato. Tra un mese avrebbe compiuto 16 anni, ora è sedata da farmaci e attaccata ad un respiratore. Adesso prego che sopravviva”. È il ritorno ad una triste cronaca: il boato, un rumore sordo che ti entra dentro, un brivido che ti scuote. E poi un istante di silenzio innaturale, il fumo, le grida, le sirene delle ambulanze in una corsa contro il tempo, i paramedici con i lettini e le flebo, i poliziotti che transennano l’area, gli elicotteri, il caos e la paura che si diffondono ovunque. Quando finirà tutto questo? C’è chi dice quando ci sarà uno stato palestinese indipendente e c’è chi dice quando non esisterà più uno stato di Israele. È lecito pensare che non finirà mai. A meno che “qualcuno” non decida di porvi fine, a chiare lettere. Dando ascolto, per una volta, alle voci di pace, al lamento e alle lacrime della gente che soffre. “Non ho mai intenzionalmente fatto del male ad un’altra persona. Non mi è mai venuto in mente di maltrattare un altro essere umano solo perché la pensa in modo diverso”. Legge il testo del comunicato in inglese Renana Meir, 17 anni israeliana, spiegando che sua madre è stata uccisa davanti a lei, sotto i suoi occhi: brutalmente accoltellata da due minorenni palestinesi. Parla la giovane Renana, nelle stesse ore in cui a Gerusalemme ancora una volta si salta in aria, e lo fa alla platea di diplomatici del Consiglio di Sicurezza al Palazzo di Vetro. “È difficile esprimere a parole quanto sia profondo il mio dolore”. Eppure, aggiunge “Io non odio, non riesco ad odiare. Con il cuore a pezzi siamo venuti qui oggi a chiedere il vostro aiuto. Aiutateci a creare la pace attraverso l’amore e a trovare il buono che è in ciascuno di noi”.

PASQUA A GERUSALEMME

Gerusalemme. Città Vecchia, città dentro la città, centro del mondo. Nel quartiere cristiano in tranquillità si stanno svolgendo le celebrazioni per la Passione, morte e resurrezione di Gesù, in quello ebraico si è conclusa la gioiosa festa del Purim e volge al termine lo Shabbat. Nel quartiere musulmano blitz e arresti. Le strette stradine che conducono al Santo Sepolcro accolgono turisti e fedeli di mezzo mondo. Non sono né eroi né crociati ma semplici viaggiatori, pellegrini che hanno l’opportunità di visitare uno dei luoghi “più magnetici, più problematici e più affascinanti al mondo”. Ma privo per “volere della storia” di armonia, pace e tranquillità. Contesa perennemente, Gerusalemme è il luogo dove tutti amici e nemici, nel bene e nel male, sono costretti ad incrociarsi, sporadicamente confrontandosi violentemente, spesso senza nemmeno guardarsi, altre volte relazionandosi amichevolmente, in una convivenza complicata ma non impossibile.
Nel Venerdì Santo la via Crucis con le 14 stazioni sparse lungo la via Dolorosa ha rappresentato il culmine delle celebrazioni, in una mescolanza di lingue, suoni, odori e colori. Preghiere e meditazioni guidate dal Custode di Terra Santa il francescano Pierbattista Pizzaballa. Il giorno precedente durante l’affollata processione del Giovedì Santo, che partita dalla chiesa di San Salvatore ha attraversato la porta di Sion fino al Cenacolo, il Custode di Terra Santa aveva ricordato come: “Lavare i piedi oggi significa ricordarsi dei poveri, degli ultimi. Ricordarsi che tutti siamo nati liberi e nessuno è schiavo”. Ma nelle “prigioni” di Gaza e della West Bank, sigillata in questi giorni di festa, la vita dei palestinesi è sempre più incerta. “Moderni schiavi” stretti nella morsa del regime di Hamas e dell’occupazione. Dove il rischio di una deriva generazionale, di una nuova “fabbrica” dell’ideologia fondamentalista di matrice Isis, è incombente. In queste ore quattro ventenni palestinesi di Gerusalemme Est sono stati accusati di appartenere ad un gruppo affiliato al Daesh, avrebbero tentato di recarsi in Turchia per poi unirsi alle milizie del Califfato. Nei quasi sei mesi di Intifada 2.0 hanno perso la vita 29 israeliani, 4 cittadini stranieri e quasi 200 palestinesi. Nell’omelia della messa alla Basilica della Redenzione il Patriarca di Gerusalemme Fouad Twal ha invitato i fedeli “a camminare con il Signore” per avere “più pace, più serenità”. E di pace in Terra Santa e nel mondo in questo particolare momento c’è un forte bisogno: “Il Medio Oriente senza i cristiani diventerebbe un altro Medio Oriente. Si trasformerebbe in un Medio Oriente di rovine, di pietre, di musei e non di pietre vive che danno testimonianza proprio nel luogo dove tutti gli eventi della salvezza si sono realizzati”. Sono le parole pronunciate dal Cardinale Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, al rituale della “Colletta per la Terra Santa”, la raccolta di offerte da devolvere alle congregazioni che, oltre alla custodia e mantenimento dei santuari, permettono di sostenere attività socio-educative in favore della popolazione in Terra Santa. In una regione così martoriata dalla violenza il concetto, non solo cristiano, di carità è una speranza. Iniziative umanitarie, piccole e grandi, che abbattono ponti, muri e fili spinati. Oltre 2 mila siriani hanno ricevuto, dal dicembre 2013 ad oggi, assistenza sanitaria in ospedali israeliani, molti sono donne e bambini. Dei 600 “nemici”, trattati nell’ospedale di Safed, l’80% presentava gravi traumi ortopedici. Grazie alle cure riportate e all’installazione di protesi la maggior parte dei degenti è in grado di camminare di nuovo. Gesti di carità umana che allietano questa Pasqua macchiata di sangue e sotto l’incubo del terrorismo.

LE TERRE DI MEZZO

Nemmeno il Natale placa la violenza in Medioriente, non ha fine l’interminabile scia di sangue in Terra Santa. La tensione è alta a Gerusalemme e a pochi chilometri, a Betlemme, è emergenza terrorismo. L’Intelligence palestinese, “al-Mukhabarat”, da giorni è in stato di massima allerta. Il timore è che affiliati allo Stato islamico del Califfato stiano preparando uno o più attentati durante le festività. Obiettivi sarebbero i turisti stranieri e i luoghi santi cristiani. Gruppi radicali, cellule imprevedibili che sono in grado di colpire ovunque. In maniera precauzionale le forze di polizia palestinese hanno arrestato in queste ore decine di presunti appartenenti ai gruppi salafiti. «Possano israeliani e palestinesi riprendere un dialogo diretto e giungere ad un’intesa che permetta ai due Popoli di convivere in armonia, superando un conflitto che li ha lungamente contrapposti». È l’appello pronunciato da Papa Francesco nella benedizione dell’Urbi et Orbi, durante la messa nel giorno di Natale. E mentre a Roma il Pontefice invoca la pace a Betlemme ed in altri centri della Palestina scoppiano nuovi disordini che vedono coinvolta anche l’auto che accompagna il Patriarca Latino di Gerusalemme. È l’onda lunga dell’Intifada dei coltelli, dei giovani 2.0, nata ad inizio autunno tra i quartieri degradati di Gerusalemme Est e allargatasi alle città dei territori palestinesi occupati. Terre di mezzo, come quella del campo profughi di Shuafat, l’unico dentro i confini di Gerusalemme, dove anche la polizia israeliana tende a tenersi alla larga. È il regno dei Tanzim, l’ala militare di Fatah a cui aderiscono migliaia di giovani palestinesi, il cui leader Marwan Barghouti è detenuto nelle carceri israeliane con condanna all’ergastolo per terrorismo. Tuttavia, negli ultimi anni anche cellule di Hamas e altre fazioni armate si sono radicate nel territorio. «L’intero campo profughi di Shuafat è pieno di armi, fucili M16, kalashnikov e pistole». Lo confermano in queste ore alcuni residenti del quartiere alla stampa internazionale, ostaggi delle violenze interne e dell’occupazione. Su quella pietraia rivolta verso la valle del Giordano sono passati e poi stati scacciati romani, crociati, ottomani, ebrei e giordani. Shuafat è un “piccolo quartiere“ che ospita, secondo gli ultimi dati dell’UNRWA (l’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) circa 18 mila palestinesi, di cui il 60% ha meno di 25 anni, ma è terra di nessuno, un non luogo dove l’emergenza è cronica. Nel campo imperversa una situazioni di malessere giovanile che è quasi incomprensibile vista da fuori. I giovani di non hanno una prospettiva, non hanno un lavoro, hanno abbandonato gli studi, vivono in veri e propri tuguri, appartamenti a più piani costruiti in “stile lego”: un piano sull’altro, aggiunto man mano che la famiglia si allarga. Non c’è controllo ne sicurezza nell’edificazione delle case che si trasformano in palazzi. Edifici praticamente attaccati l’uno con l’altro, talvolta tra una porta e l’altra c’è meno di pochi metri. Le strade del campo sono delle strette viuzze assimilabili a gallerie a cielo aperto. Ogni giorno la spazzatura, che da lì non esce, viene accumulata e poi bruciata, spesso a ridosso del muro di separazione per provocarne cedimenti. A Shuafat l’acqua scarseggia, arriva solo di notte e mancano le fogne. La gente vive un disagio giornaliero, in uno scenario di totale degrado, socio abitativo e culturale. È lì che nasce questa nuova Intifada che coinvolge, purtroppo, anche i bambini: indossano maschere o si coprono il volto con stracci, sono centinaia, lanciano sassi con le fionde, bruciano pneumatici, accendono petardi. Sono per lo più di età compresa tra gli 8 e i 13 anni, partecipano ai disordini spalla a spalla con i ventenni. Giocano a fare i grandi, imitano i fratelli maggiori, si dicono disposti a morire: «non abbiamo nulla da perdere», ripetono con tono di sfida. Sono i ragazzini della Terza Intifada che scelgono di “combattere” piuttosto che andare a scuola e studiare. Questa è anche la loro Intifada. Una rivolta vincolata ad una volontà di carattere politico, più o meno evidente. Perché come dice Papa Francesco: «Dove nasce la pace non c’è più spazio per l’odio».

SENZA FINE

Gerusalemme. Non c’è freno all’ondata di terrore che scuote le strade di Israele. È Intifada, l’abbiamo vista crescere nelle passate settimane, a partire dalla battaglia che a Settembre scoppiò nella Spianata delle Moschee e che continuò per giorni, con i fedeli musulmani arroccati all’interno del complesso religioso e la polizia israeliana impegnata a disperdere i manifestanti. Sassaiole, molotov, petardi, lacrimogeni e granate stordenti. A scatenare i disordini la presenza di coloni israeliani e religiosi ortodossi che sono soliti entrare nel luogo sacro all’Islam per poi mettersi a pregare, infrangendo lo status quo e la proibizione imposta dalle massime autorità religiose dell’ebraismo. Altro elemento di tensione in quelle prime ore di Intifada 2.0 è stato il divieto ad alcune murabitat, le donne sentinelle volontarie musulmane che presidiano il luogo sacro assicurando che non venga “profanato da infedeli”, di entrare nella Spianata. Poi nei giorni a seguire la “rivolta” si è allargata anche alle altre città israeliane. Tristemente ha fatto la comparsa quello che è divenuto l’emblema di questa Intifada 2.0: il pugnale. Armati di coltelli uomini e donne palestinesi aggrediscono i passanti. L’epilogo di questi episodi è quasi sempre lo stesso: l’attentatore riverso a terra circondato dalla sicurezza, spesso il corpo è inerme crivellato di colpi. L’Intifada dei coltelli assume di giorno in giorno i connotati di una protesta popolare, in gran parte minorenni dei quartieri arabi di Gerusalemme Est. A differenza delle precedenti “rivolte” è assente un cappello politico, questo è un movimento generazionale con richiami ideologici confusi e indistinti “mescolano anarchia e religione”. Una Intifada che vede le due principali organizzazioni palestinesi Hamas e Fatah assolutamente non in grado di prenderne il controllo e che rischiano di vedere nuove forze politiche emergenti aumentare il consenso nella regione. D’altro canto l’attuale leadership politica palestinese, a Gaza come a Ramallah, non gode di consenso tra i giovani e per questo è relegata ad un ruolo subalterno e protesa ad appoggiare almeno verbalmente la protesta. Una Intifada di ragazzi che passano le giornate a navigare sul web, tra cinguettii e libro delle facce. Da internet scaricano decine di filmati postati durante gli scontri con l’esercito israeliano, oppure altri video di altri luoghi del Medioriente in conflitto, il filo conduttore è sempre la violenza. È il web ad influenzare questa nuova generazione di shabaab che si lanciano in attacchi terroristici armati di pugnale. Pronti a morire nel nome del fanatismo anti ebraico. Giovani terroristi per i quali il martirio prima di essere il raggiungimento del Paradiso è un video virale. Ragazzi che vogliono essere ricordati non nelle pagine dei libri di storia ma da Wikipedia o da eroi di Youtube, per una generazione dove non c’è separazione tra il mondo reale e quello virtuale. Intanto Papa Francesco durante l’Angelus della domenica lancia un accorato appello: “In questo momento c’è bisogno di molto coraggio e molta forza d’animo per dire no all’odio e alla vendetta e compiere gesti di pace … Nell’attuale contesto medio-orientale è più che mai decisivo che si faccia la pace nella Terra Santa.” Mentre, in queste ore, il quotidiano francese Le Figaro ha riportato la notizia dell’intenzione del governo di Parigi di presentare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una proposta che prevede l’invio di osservatori internazionali con lo scopo di “verificare e impedire violazioni dello status quo” nella Spianata delle Moschee. Al testo dell’iniziativa, secondo fonti giornalistiche, lavorerebbe anche la Spagna. Israele però respinge una simile soluzione che secondo il vice ministro degli esteri Tzipi Hotovely sarebbe una chiara violazione della sovranità di Israele.

IL LUOGO SACRO PIU’ CONTESO

Gerusalemme. Ancora una volta gli occhi del mondo guardano inermi la scena della recita della Gerusalemme contesa. Il teatro è il Monte del Tempio o Spianata delle Moschee due nomi per il luogo da settimane al centro delle cronache e degli equilibri diplomatici internazionali. La protesta in Terra Santa si muove di qua e di là dal muro di separazione. Scontri in Palestina, nei campi profughi di Ramallah e Betlemme, negli insediamenti e poi sino ai confini della Striscia di Gaza. In Israele la violenza corre dalla Galilea sino al deserto del Neghev. Anche a Jaffa e Tel Aviv le due città israeliane contigue e laboratorio storico di coesistenza interreligiosa sono contagiate dall’ondata di protesta. A Gerusalemme le sirene delle camionette e delle ambulanze non smettono di suonare nemmeno al calar del sole. Il conto dei feriti e dei morti cambia di ora in ora. La causa scatenante di questa nuova Intifada, quella dei giovani con i coltelli che si parlano attraverso i social, l’Intifada 2.0, è il presunto tentativo da parte del governo Netanyahu di cambiare lo status quo della Spianata. Andando al centro del problema emerge che questa è una “rivolta” fomentata dalla frustrazione di una generazione di nati disperati. Uomini e donne, dai 16 ai 30 anni. Impugnano coltelli e si scagliano sui passanti per poi essere, nella maggior parte dei casi, crivellati di colpi. Sono pronti a morire non tanto e solo per una causa ma quanto per una religione, per il suo simbolo: la moschea di Al Aqsa e la Spianata. Su quelle rocce la tradizione biblica vuole che si svolse il sacrificio di Isacco e che per l’Islam fosse il punto dell’ascesa del profeta Maometto ai 7 cieli. Nell’antichità il re Salomone vi eresse un tempio per ospitare l’arca dell’alleanza. Distrutto dai babilonesi e ricostruito ancora più grande da Erode. I romani sulle macerie del tempio israelita edificarono un luogo di culto a Giove. Nel Medioevo ospitò i cavalieri templari dopo che la città venne conquistata dai crociati espugnando le mura proprio in quel preciso lato della città. Quasi un secolo dopo nel settembre del 1187, entrava vittorioso tra le sue mura il Saladino che fece purificare i luoghi sacri dell’Islam con acqua di petali di rose. Con l’arrivo degli Ottomani il Kotel – Muro del Pianto – divenne venerato dagli ebrei. Ma per quel luogo conteso la pace è una sottile linea rossa, tenue e labile. Al centro di violenti durante il mandato britannico della Palestina tra ebrei e arabi. Re Abd Allah I di Giordania nel luglio del 1951 giaceva a terra colpito a morte da un palestinese. Il 7 giugno del 1967 mentre imperversava la guerra dei Sei giorni i paracadutisti della 55° brigata israeliana prendevano la città vecchia e issavano nella Spianata la bandiera con la stella di Davide. Poi rimossa per volontà dello stesso generale Dayan, conoscitore e attento alle sensibilità arabe. Con gli accordi di pace all’area della Spianata venne garantita piena indipendenza da Israele, che mantiene il diritto di controllo, dalla porta di Mughrabi, dell’accesso al luogo santo per motivi di sicurezza. Il sito, aperto al pubblico, è gestito de jure da una fondazione islamica, la Waqf che fa capo alla famiglia reale giordana e che mantiene l’ordine, regola le visite e proibisce la preghiera ai fedeli di altre religioni, tuttavia, numerosi sono gli ortodossi ebrei che vi si recano a pregare. Nel 1990 la Spianata fu teatro di una rivolta palestinese causata dalla posa di una pietra angolare da parte di un gruppo ebraico di ultra ortodossi che proprio lì vorrebbe la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme per la venuta del Messia. Le violente proteste da parte palestinese e la reazione israeliana provocarono la morte di una ventina di persone e centinaia di feriti. L’episodio passò alla storia come il lunedì nero. Il 28 settembre del 2000, l’allora leader dell’opposizione in parlamento, nella Knesset, Ariel Sharon, accompagnato da una scorta armata, passeggiò nella Spianata, fu l’inizio della seconda Intifada. La realtà del contesto complica e amplifica. Basta camminare per il quartiere ebraico della città vecchia, dove la vetrina di un negozio espone un modellino della città: nuove architetture compongono il plastico ed è ben visibile la costruzione del nuovo tempio ebraico, che colpisce perché è collocato proprio sull’attuale spianata delle moschee. A qualche metro di distanza nella zona araba e musulmana in un bar del suk campeggia un poster: è una recente mappa della Palestina, ma senza lo stato di Israele. Tre mila anni di discordia e molti altri giorni di violenza a venire nel nome di un piccolo lembo di roccia.

INTIFADA 2.0

Pochi giorni fa, nella terra arida delle colline della Samaria, dove qualche olivo pennella di verde la bianca pietraia che scende verso la strada che porta all’insediamento di Itamar, all’interno di una macchina utilitaria sono stati rinvenuti due corpi inermi. La famiglia Henkin, marito e moglie, crivellati di pallottole, i quattro bambini a bordo, fortunatamente, incolumi. Le vittime, una giovane coppia di coloni israeliani, freddati da cecchini palestinesi miliziani di Hamas. In queste ultime ore gli appartenenti al gruppo di fuoco sono stati arrestati e avrebbero confessato durante l’interrogatorio, mentre a Ramallah dall’Ufficio del presidente palestinese sono arrivate parole ferme di condanna alle violenze e un invito ad abbassare i toni. Intanto, nel fine settimana è la Città Vecchia, il cuore di Gerusalemme, teatro di un attentato dove perdono la vita due israeliani, uno è un rabbino che si stava recando con la famiglia a pregare al Muro del Pianto. Domenica mattina quando il sole non è ancora comparso un giovane palestinese con in mano un coltello è circondato e ucciso dalla polizia, le immagini corrono sul web. La prima risposta di Netanyahu è la chiusura della Città Vecchia agli arabi non residenti, è la prima volta che il governo israeliano prende una tale misura di sicurezza. Oltre tremila soldati sono dislocati a presidiare i vicoli e le porte d’ingresso ai cinque storici quartieri. Nella giornata di lunedì numerosi incidenti nella Cisgiordania, a Tulkarem perde la vita un diciottenne palestinese. Mentre a Betlemme, nel campo profughi di Aida, muore un bambino palestinese di tredici anni. In Terra Santa non si placa la scia di sangue, sono giorni dove si contano morti e feriti, muoiono israeliani e palestinesi. E la protesta violenta dalla Spianata delle Moschee di Gerusalemme si allarga alla periferia, nei campi profughi come nei principali centri della West Bank. I giovani palestinesi – shabab – volto coperto da kefiah e muniti di fionda che caricano con sassi e scagliano con forza ai soldati, alle camionette e alle vetture in transito, nelle arterie che portano al centro della Città Santa. Volano molotov e l’esercito israeliano risponde con lacrimogeni e proiettili, senza tuttavia, essere in grado di contenere gli scontri non più sporadici ma oramai quotidiani. È la nuova Intifada. Qualcuno a sentire questa parola storce il naso, obbiettando che è presto per definirla così, eppure la realtà e la storia di quei luoghi contesi ci insegna che è il nome forse più appropriato. È Urban Intifada o Intifada 2.0, una “rivolta”, questo il significato della parola in arabo, portata avanti da una nuova generazione, per molti versi catalogabile come di rottura con le precedenti: colpisce in strada ma viaggia su facebook e sui social networks. Una eruzione incontenibile che nasce dalla rabbia e dalla voglia di vendetta, rifiuta la trattativa e non crede nella pace, sono “lupi solitari”. Non pensano a vincere e a far trionfare la causa palestinese, tantomeno accettano di essere politicizzati e strumentalizzati da una parte, lo fanno semplicemente per orgoglio e, purtroppo, cultura. Per molti di loro alla fine ci sarà il carcere. Entreranno nelle prigioni israeliane dove ad attenderli ci sono i “rivoltosi” della prima Intifada e i terroristi della seconda, trent’anni di storia del Medioriente e del conflitto israelopalestinese. Tre decenni di disastri a cui la politica non ha dato risposte e rimedio. Le colpe sono davanti agli occhi di ciascuno di noi, non c’è giustificazione nemmeno per la comunità internazionale che avrebbe dovuto proporsi da cuscinetto se non da pacere. Il giornalista Alain Gresh nel libro Israele, Palestina scrive: « Il patto di Ginevra prova, ed era lo scopo dei suoi promotori, a dimostrare che c’è di volta in volta una soluzione politica possibile ….. L’unica altra opzione ha a che fare con l’incubo, con l’apocalisse tanto spesso annunciata su questa terra tre volte santa, un’apocalisse che non farebbe alcuna differenza tra gli uni e gli altri, tra vincitori e vinti. Un’opinione simile ha espresso in queste ore Hilik Bar, esponente di spicco del partito laburista israeliano e speaker alla Knesset: “La radicalizzazione in atto a Gerusalemme Est non è solo il risultato della propaganda delle organizzazioni islamiche – Hamas e Jihad – deriva anche dalla mancanza di scelte che Israele avrebbe dovuto fare riguardo al futuro di Gerusalemme Est e dei suoi abitanti. La situazione complessiva nella maggior parte dei quartieri arabi della città rispecchia lo status ufficiale dei loro abitanti: residente permanente – meno di un cittadino e più di un lavoratore straniero.” Hilik, segretario generale dell’Avodà, punta il dito contro il governo di Netanyahu: “Lo Stato di Israele deve far appello alla logica. La crescente violenza è un chiaro segno del fallimento della politica di Netanyahu centrata sull’esclusivo uso della forza. L’ordine è importante e la dissuasione non è meno rilevante, ma in un luogo così complesso e sensibile come Gerusalemme sono insufficienti. Non si può aspettare l’introduzione di pene più severe o la costruzione di altre barriere per risolvere tutti i problemi. Non si può trattare solo con i sintomi ed evitare di andare a fondo alla radice del problema.” La proposta di Hilik è “trasferire la responsabilità della fornitura di servizi pubblici nei quartieri arabi”, migliorando la qualità della vita e rendere sostenibile, adeguato il livello dei servizi. Un percorso, quello proposto da Bar, che trova vari ostacoli, sia da parte dell’attuale governo che della controparte palestinese. È infatti chiaro che il collasso del processo di dialogo implica la fine dello status a cui “eravamo abituati”. La direzione è oscura, porterà quasi sicuramente ad un punto di rottura con il passato: oggi una nuova rivolta popolare palestinese, domani forse le dimissioni di Abu Mazen o lo smantellamento dell’Autorità Nazionale palestinese per giungere, un giorno non troppo lontano, alla cancellazione degli accordi di Oslo.

TUTTI I DUBBI DEL PRESIDENTE

La prima visita ufficiale del presidente israeliano Reuven Rivlin in Italia, avvenuta la scorsa settimana, è stata contrassegnata da un profilo mediatico con riflettori bassi, quasi spenti. Tuttavia, durante gli importanti colloqui qualche magagna è arrivata all’orecchio del presidente. In particolar modo il successore di Shimon Peres ha dovuto registrare dissenso all’operato del governo e alle scelte personali del suo Primo Ministro Netanyahu. La costruzione del Muro di separazione nella Valle di Cremisan, a Beit Jala vicino a Betlemme ha innervosito il Vaticano. Il patriarcato latino di Gerusalemme ha espresso critiche pesanti, parlando apertamente di “un insulto alla pace”. Non meno spigolosa la questione della nomina ad ambasciatrice di Israele in Italia di Fiamma Nirenstein (giornalista, ex parlamentare PDL, candidata con una propria lista alle passate elezioni della comunità ebraica romana ma che vive in Israele da tempo a Gilo, oltre la linea verde del ’67). La scelta dell’incarico alla Nirenstein è stato espressamente voluto da Netanyahu, provocando la reazione della comunità ebraica italiana dove la decisione ha trovato pochi consensi e tanti malumori finiti in queste ore sulle prime pagine della stampa nazionale ed internazionale. Problemi “marginali” se confrontati con lo scenario della Terra Santa dove la tensione è salita ad un punto di ebollizione. L’ala estrema del movimento dei coloni lancia azioni terroristiche a tappeto, compiendo aggressioni armate contro civili palestinesi, danneggiando le loro proprietà, in una diffusa impunità dalla legge. Gli scontri tra la polizia e i giovani palestinesi di Gerusalemme Est sono ormai all’ordine del giorno, come durante i giorni della prima Intifada. La navigazione per la risicata maggioranza governativa è a vista, l’attuale governo di Netanyahu, forse quello più marcatamente di destra della storia di Israele, appare un ensemble di nazionalismo e ortodossia religiosa mescolata a conservatorismo. In alternativa resta sullo sfondo lo scenario del ritorno alle urne il prossimo anno oppure la costruzione di un governo di larghe intese, caldeggiato da Rivlin. Non è un segreto che non ci sia mai stato feeling tra il presidente Rivlin e il primo ministro Netanyahu. Bibi lo scorso anno ha tentato inutilmente di contrastare l’elezione di Rivlin, il quale pare non aver ancora dimenticato lo sgarbo del collega di partito. Tuttavia i due, in questi mesi, hanno mantenuto, almeno di facciata, un rapporto cortese. La luna di miele è terminata e l’ostilità è tornata in campo. A dimostrarlo il fatto che le due massime cariche dello stato israeliano non hanno una riunione di lavoro da due mesi. Il motivo del dissidio è direttamente imputabile alla condotta del governo israeliano nei confronti dell’amministrazione americana. Rivlin è fortemente preoccupato dei possibili danni della linea politica di Netanyahu alle relazioni di Israele con gli Stati Uniti. Fautore di un approccio più morbido nei confronti dell’amministrazione Obama il presidente d’Israele ha criticato la decisione di Netanyahu di affrontare il Congresso senza coordinarsi con la Casa Bianca, in quello che passerà alla storia come l’ultimo atto dello scontro Obama-Netanyahu. “Israele riesce decisamente bene nell’obiettivo di mantenersi in vita, ma si tratta di uno sforzo che non conosce fine poiché minacce esistenziali come quella del nucleare iraniano e pericoli più contingenti ma comunque gravi come quello del terrorismo fondamentalista, la impegnano in modo costante. Ciò che dovrebbe risolvere tale situazione sarebbe il conseguimento della pace con i palestinesi e con il mondo arabo, ma in questo finora il sionismo ha fallito. È chiaro che in questo caso la partita non dipende da un solo giocatore: per fare la pace è necessaria una controparte che sia d’accordo nello stipularla e mantenerla. E per assurdo, storicamente, la parte che più la ostacola è anche quella che soffre maggiormente della sua mancanza.” Questa l’analisi del politologo israeliano Avraham Diskin, professore con forte ascendente sul presidente Rivlin. Diametralmente opposta invece la lettura della sociologa arabo-israeliana Khawla Abu Baker: “Purtroppo è innanzi tutto l’approccio politico dell’opinione pubblica generale israeliana a non essere cambiato: il governo non dà nessuna speranza di cambiamento. Per Israele è come se tutto fosse iniziato il giorno della firma di Oslo e tutto ciò che era avvenuto prima non sia mai avvenuto, sia stato cancellato. Ma la pecca maggiore di Oslo è in ogni caso, che tutto è stato fatto a livello di leader ma i popoli non sono stati coinvolti. Le ferite sono rimaste aperte e hanno impedito la penetrazione dell’iniziativa all’interno dei popoli. I settori delle società che sono stati coinvolti sono stati i convinti e non è stato fatto nulla o quasi per convincere i contrari.” Almeno una persona si è convinta della necessità del dialogo per portare alla nascita di due Stati in pace, quell’uomo è Rivlin. Ieri era un falco del Likud contrario ad uno Stato palestinese oggi è la colomba che vola sul cielo del Medioriente.

Francesco in Terra Santa, un anno dopo

È trascorso un anno da quando, il 25 maggio 2014, Francesco, Papa della Chiesa Cattolica e Vescovo di Roma, giungeva a Gerusalemme. Il primo passo sul Monte degli Ulivi, scendendo dall’elicottero militare con la bandiera di Davide che l’aveva imbarcato a Tel Aviv. La visita della città Santa era la parte conclusiva del suo pellegrinaggio: intenso e storico. Il giorno precedente aveva fatto tappa in Giordania: la messa nello stadio di Amman, la preghiera sulle rive del fiume Giordano e l’incontro con le comunità arabe cristiane a Betania. Nella mattina del 25 è in Palestina a Betlemme, celebra messa nella Piazza della Mangiatoia e poi, lontano dalle telecamere, scende nella grotta della Natività. Quello stesso giorno, nel tardo pomeriggio, l’incontro storico con il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. In serata è al Santo Sepolcro. Il mattino seguente invece cammina nella Spianata delle Moschee. Depone una busta nella fessura delle pietre al Muro del Pianto. Abbraccia in segno d’amicizia il rabbino Skorka e il Mufti Abboud. Incontra in sinagoga il Gran Rabbinato di Israele. E infine celebra la messa nel Cenacolo, prima d’intraprendere il viaggio di ritorno a Roma. “L’ecumenismo è stato il cuore della visita del Papa”, ha commentato Marie-Armelle Beaulieu, redattrice del magazine Terre Sainte nel suo ultimo editoriale, nel quale prosegue: “Ogni fatto e gesto del Papa in Terra Santa è stato interpretato come politico. Anche quando il Papa ha insistito sul carattere strettamente religioso del suo pellegrinaggio”. Marie-Armelle è una cara amica che molto ci ha aiutato nella realizzazione del nostro instant book “Francesco in Terra Santa”. Marie-Armelle, che abbiamo sentito in questi giorni per rivivere quei giorni intensi di un anno fa, ha fatto parte della Commissione per la comunicazione del pellegrinaggio pontificio. Seguendolo passo dopo passo, gesto dopo gesto: “Il Papa ha invitato a costruire la pace come un progetto spirituale”. I gesti di Francesco non sono casuali, sia che rientrino nell’ambito religioso che in quello più strettamente “politico”. Ciascun atto compiuto in Terra Santa è stato un chiaro messaggio a fedeli e non fedeli. In Giordania ha lodato la monarchia Hashemita che offre accoglienza a milioni di rifugiati. In Palestina ha parlato a lungo di dialogo con il presidente palestinese. A Betlemme si è fermato in preghiera al Muro di separazione tra palestinesi ed israeliani. Ha incontrato i giovani dei campi profughi palestinesi. Sul Monte Herzl ha reso omaggio al memoriale delle vittime del terrorismo. Nella sala della Rimembranza ha rinvigorito la fiamma della memoria delle vittime della Shoa. Ha zappato e piantato un ulivo nella residenza del presidente israeliano Shimon Peres. E un altro albero “romano” ha posto anche nell’orto del Getsemani. Pochi giorni dopo nei giardini Vaticani ha compiuto lo stesso gesto insieme a Peres e Abu Mazen, ancora ulivi della pace, della speranza di pace: “Se il Papa ha piantato degli olivi questo non è perché il Santo Padre ama il giardinaggio. Ma perché l’olivo è un simbolo di pace, longevità e di “lentezza”. Prima di gustare il frutto di questo albero, bisogna avere pazienza. Francesco ha piantato in Terra Santa qualcosa nel cuore di ciascun cristiano. E la maturità di questo frutto arriverà a suo tempo. Intanto bisognerà dare molte cure a questo albero affinché ci dia i suoi prodotti migliori. Respingendo le minacce che già ci sono. Infatti, dopo le ripetute invocazioni alla pace abbiamo assistito ad un ritorno di violenza cieca e intollerabile. Ora è più urgente che mai comprendere quella conversione a cui il Pontefice ci invita”. Abraham Yehoshua, il famoso scrittore israeliano, proprio lo scorso anno, alla vigilia dell’arrivo di Francesco in Terra Santa, da noi intervistato disse: “Il suo comportamento popolare, informale, sembra proprio quello che ci vuole per riavvicinare il mondo cattolico alla propria Chiesa.” Il viaggio di Francesco in Terra Santa dal  24 al 26 maggio 2014 è stato un pellegrinaggio “ordinario”, in perfetta modalità Bergoglio.