Tutti gli articoli di Redazione

BIBI E L’EREDITA’ DEL LIKUD

Chutzpàh è una parola ebraica che racchiude in sé diversi concetti, non solo negativi, ma che viene spesso riferita ad un atteggiamento sfrontato, impudente. È un termine yiddish entrato a far parte del linguaggio comune. La prima menzione nelle fonti classiche ebraiche si trova nella Mishna, in Masechet Sota 9:15. La frase è: “Nel periodo messianico la chutzpàh prevarrà”. L’altro significato è quello della regalità senza corona. Infine, l’esempio più colorito, quello dell’uomo che uccide i propri genitori e al giudice chiede clemenza, perchè orfano.
Se si passa alla politica di apostrofati chutzpàh ce ne sono tanti, ma a uno più di tutti calza a pennello, Benjamin Netanyahu. Bibi inequivocabilmente è, per la stampa, per i detrattori e gli avversari, per i fan o gli amici, il re dei chutzpàh. Grazie a questa naturale dote di sfacciataggine è stato capace di restare al centro del dibattito degli ultimi trent’anni della storia di Israele. Ha saputo rialzarsi da sconfitte brucianti. Ha ribaltato la società israeliana dalle fondamenta e modellato il Likud, il suo partito, a propria immagine. Ha traghettato la destra verso nuovi mari, per approdare infine al lato oscuro del nazionalismo populista, con la formazione del governo più a destra di sempre. Elevando al rango di ministri impresentabili razzisti.
na cosa che non ha mai fatto e forse minimamente pensato è indicare il suo successore. Poco probabile che passi il testimone al figlio Yair, a cui manca il quid. Vantava delle pretese dinastiche Benny Begin, figlio dello storico leader Menachem, che invece si è fermato al palo. Ehud Olmert c’era riuscito ma è scivolato penalmente su una buccia di banana, eliminandosi da solo dalla corsa. È stata ad un passo dall’accantonarlo in soffitta Tzipi Livni, ma con una “magia” politica Netanyahu si è liberato di lei. In ordine sparso si sono rivoltati contro di lui interi apparati del partito e stretti consiglieri: Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar, Zvi Hauser, Zeev Elkin, Moshe Ya’alon, Ayelet Shaked e Naftali Bennett. Quest’ultimo ha fatto tremare il sogno di onnipotenza di Bibi, l’illusione è durata poco e il governo Bennett-Lapid è evaporato al vento. E così ancora una volta è tornato alla guida del paese.
L’ultimo capitolo della saga di Netanyahu, tuttavia, ha palesato criticità di fondo e responsabilità. La partecipata protesta della piazza del movimento pro-democrazia, iniziata a gennaio pochi giorni dopo il suo insediamento a Balfour street, e gli eventi tragici del 7 ottobre, hanno evidenziato un leader non all’altezza della situazione. Incapace di ascoltare il dissenso di massa che montava giorno dopo giorno. Tardivo nell’assicurare la sicurezza ai propri cittadini. Troppi errori. Pagati impietosamente nei sondaggi, gradimento crollato ai minimi (28%). Ha perso consenso e soprattutto la fiducia della gente.
Adesso, a chiedere le sue dimissioni c’è una larga fetta di Israele, che va ben oltre i lettori di Haaretz e che è trasversale alla composita società israeliana. Chi ha velleità di cimentarsi alle prossime elezioni politiche, una volta finita la guerra, e aspirare al ruolo di comando è Benny Gantz. L’ex capo di stato maggiore, oggi responsabilmente membro del Gabinetto di guerra, è una concreta alternativa, che non dispiace a Biden. Dai banchi dell’opposizione invece il più accreditato è sicuramente Yair Lapid, anche lui molto stimato dai democratici a Washington. Se invece l’operazione per rimuovere Netanyahu dovesse palesarsi a conflitto in corso, la soluzione più plausibile è che avvenga attraverso un terremoto politico nel Likud. Sia Gantz che Lapid non hanno i numeri nell’attuale Knesset per formare una maggioranza. E senza l’appoggio del Likud anche il sostegno dell’amministrazione statunitense non è sufficiente. Una scelta di continuità con Netanyahu sarebbe Yariv Levin, se non fosse che il suo nome è indissolubilmente legato alla contestata riforma della giustizia e inviso a tanti. Chi ha le spalle larghe abbastanza per reggere il confronto con il padre padrone della destra è Nir Barkat. L’ex sindaco di Gerusalemme è un imprenditore di successo, con elevata disponibilità economica: è il politico più ricco di Israele. Di poche parole, freddo come un iceberg, difficile da interpretare. Già in passato ha alzato la testa, prendendo apertamente le distanze da Netanyahu. In questo esecutivo è ministro di prima fascia, presiede l’Economia. Rispetto ad altri dirigenti del Likud non ha una corrente di riferimento, ed è, se vogliamo, avulso dal controllo della macchina (e delle tessere). Di voti, comunque, ne raccoglie parecchi. È stato tra i primi, e pochi, nel governo a rilasciare interviste dopo il 7 ottobre. Puntando il dito contro l’Iran. A fare di lui un potenziale leader a largo spettro è la lunga esperienza da primo cittadino di Gerusalemme, dove ha saputo governare con tutti: dalla sinistra sionista alla destra religiosa. Se c’è un politico con le credenziali, adatto ad una fase di unità nazionale, sembra proprio essere lui. Prima però deve sfilare la poltrona a Bibi.

I TERRORISTI ENTRANO IN CASA

Nella mattina di sabato, durante quello che sembrava un tranquillo shabbat, Israele si è svegliata in una nuova guerra. A sferrare un attacco senza precedenti sul suolo israeliano è stata l’organizzazione terroristica di Hamas. Per trovare un episodio simile di invasione su larga scala dobbiamo riavvolgere il nastro della storia al ’73, alla guerra dello Yom Kippur contro gli eserciti di Egitto e Siria. 50 anni dopo decine di terroristi islamici si sono infiltrati in varie località della regione meridionale del Negev. Prima le sirene che hanno risuonato fino a Tel Aviv, per la pioggia di missili lanciati da Gaza, e poi lo “sfondamento” del confine, con un’orda di uomini armati che hanno preso d’assalto intere comunità inermi. “Dopo aver camminato un’ora siamo arrivati in uno dei kibbutz dell’occupazione. L’obiettivo di questa operazione è rapire i coloni e uccidere soldati. Sopprimere i coloni”. A parlare è un “giornalista” palestinese al seguito delle truppe di Hamas che hanno fatto breccia in Israele. L’obiettivo sarà anche stato di prendere ostaggi e negoziare la loro liberazione, l’unica certezza è che il prezzo che Gaza pagherà è alto.
Intanto, è unanime il giudizio che sia i servizi segreti che l’esercito israeliano (IDF) hanno avuto una falla nel prevenire un attacco preparato dettagliatamente da tempo. Pochi i dubbi sul fatto che l’IDF, l’esercito più potente del Medio Oriente, è stato colto completamente di sorpresa, ma non è l’unico colpevole di questa triste pagina di storia. Fino allo scoppio delle ostilità l’intelligence stimava una bassa possibilità che Hamas si impegnasse in una nuova escalation, i segnali andavano in tutt’altra direzione. Questo errore di valutazione, indotto molto probabilmente anche dalle informazioni egiziane, ha portato ad un maggiore dispiegamento di forze in Cisgiordania, in particolare nell’area di Nablus e nel campo profughi di Jenin. Dove, per la presenza delle colonie israeliane da proteggere, la situazione appariva più pericolosa e violenta. In qualche modo la strategia di spostare l’attenzione da Gaza alla Cisgiordania ha risentito dell’attuale clima politico, i partiti nazionalisti al governo spingono per l’annessione, ed hanno nei coloni il loro bacino elettorale. Questo combinato è parte del disastro a cui stiamo assistendo.
Così il giornalista Avi Issacharoff. “È l’11 settembre [di Israele], e se non sfodera una larga operazione di terra, è la fine della vita politica di questo governo”. Yair Lapid e Benny Gantz, i leader dei due principali partiti dell’opposizione al governo Netanyahu, hanno teso una mano all’avversario politico. Offrendo la disponibilità ad aderire ad un governo di unità nazionale. Lapid, a differenza dell’ex capo di stato maggiore Gantz, ha tuttavia posto una condizione, che fossero rimossi dall’incarico i due personaggi più carismatici dell’estrema destra nazionalista, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. La decisione finale spetta ovviamente a Netanyahu, la scelta non è semplice. Se accetta si rivoluziona l’asse politico del governo. E cade ogni velleità di portare avanti il programma di riforma della giustizia, che aveva spaccato l’opinione publica israeliana in due. Ma si apre per Netanyahu lo spazio (politico e diplomatico) per portare avanti il suo storico piano di colpire Teheran (i progetti militari sono riposti nel cassetto da anni). L’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, non è l’unico a pensare che dietro ad Hamas “c’è il sostegno dell’Iran”. Difficile il contrario, soprattutto perché non c’è nessuna smentita all’accusa.
A giugno scorso una delegazione ad alto livello di Hamas, incluso il capo dell’Ufficio politico del movimento Ismail Haniyeh, ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Teheran per discutere della causa palestinese. Nella dichiarazione Haniyeh ha salutato il ruolo dell’Iran a sostegno del popolo palestinese. E il presidente iraniano, a sua volta, ha ribadito l’impegno del suo paese in favore della resistenza di fronte all’occupazione israeliana. Pochi mesi prima lo stesso Haniyeh aveva personalmente fatto visita a Beirut a Hassan Nasrallah. L’asse in calce siglato tra Hezbollah, Hamas e Iran degli ayatollah prefigurava che qualcosa di tremendo bolliva in pentola.
Le relazioni diplomatiche di Netanyahu con il mondo sunnita – gli “arabi anti-iraniani”, che hanno portato ad espandere il perimetro degli affari e gli stessi Accordi di Abramo, come i recenti colloqui distensivi tra Israele e sauditi (con il placet della Turchia di Erdogan) hanno accelerato la reazione degli altri attori regionali. Adesso Netanyahu, se come ha ripetutamente promesso, vuole dare una lezione ai nemici, vicini e lontani, si vede costretto ad agire su vari teatri contemporaneamente. Per il via libera ad attaccare l’Iran c’è comunque da attendere il nulla osta di Washington. In un quadro politico come quello attuale tutto lascia pensare che l’eterno conflitto del Medio Oriente possa a questo punto davvero inasprirsi sino ad autoalimentarsi all’infinito. L’11 settembre di Israele è iniziato il 7 ottobre 2023. Auguriamoci che non finisca nello stesso modo, e che Gaza non diventi l’Afghanistan del Mediterraneo. O forse Hamasistan è già Afghanistan, e l’incubo continua.

HAMAS PORTA LA STRAGE NEI KIBBUTZIM

“Dov’è l’esercito?”. Domanda che si sono chiesti molti cittadini israeliani durante l’attacco di Hamas. La risposta è la stessa di 75 anni fa: la vostra difesa, e sicurezza, siete voi stessi. Prima linea del fronte di guerra. Dove l’alternativa è combattere o scappare.
La mattina del 7 ottobre 2023 prime ad essere investite dall’orda terroristica sono state le comunità che risiedono lungo il confine, a pochi metri dalla barriera che separa la Striscia di Gaza da Israele. Be’eri, Kfar Aza e Re’im, le più colpite dalla violenza assassina e dalla caccia all’ostaggio. Piccoli centri dediti da sempre al lavoro della terra, dove dalle finestre delle case si vede la periferia della città di Gaza e si respira aria di mare. Prima del ’48 erano insediamenti, strutturati nella forma di cooperative agricole secondo lo schema del kibbutz o del moshav. Furono fondati e difesi dai pionieri dello stato di Israele.
Il kibbutz in passato ha rappresentato lo specchio della società israeliana, lì sono cresciuti e si sono formati interi quadri, l’élite politica e militare del Paese. Quel modello di vita ha nel corso degli anni affrontato notevoli cambiamenti di assetto confrontandosi con la realtà dei tempi, cedendo ovviamente a ineludibili compromessi. L’esperimento cominciò nel 1909, quando sulle sponde del lago di Tiberiade il sogno del socialismo applicato veniva realizzato. Il primo esempio fu la piccola comune di ebrei marxisti di Degania Alef (anche se i suoi membri preferirono sempre chiamarlo Kvutzat Deagania ovvero “Il frumento di Dio”). Spinta ideologica incentrata sull’uguaglianza, sul lavoro a favore della comunità, sul rispetto di regole ben precise e condivise, sull’obbligatorietà di lavorare per gli altri.

Chi ha fatto quella scelta di vita ha preso, e prende, il nome di chaverim o kibbutznik. Oggi sono decine di migliaia di persone. Nel 2005 il Ministero del Lavoro israeliano ha classificato i kibbutzim (plurale di kibbutz) in tre tipologie: shitufi con sistema cooperativo, mitchadesh dove persistono, almeno nell’intenzione, minime forme di cooperativismo e urban kibbutz di fatto un agglomerato cittadino. Quando nel 2011 decidemmo di scrivere il libro “Kibbutz 3000” compleanno di un sogno, attualità di un’idea (edizione Ets), accompagnati dalla fotografa Nili Bassan, abbiamo intrapreso un viaggio alla scoperta di chi ci vive. Il nostro peregrinare dal Nord al Sud di Israele ci portò nel kibbutz Nir Am, due ore di macchina da Gerusalemme, non distante dal valico di Eretz. Nir Am per l’esattezza si trova a 457 metri dal confine con Gaza, letteralmente a un tiro di scoppio o a uno sputo dalla Striscia di Hamasland. Sabato scorso i suoi residenti hanno respinto l’assalto palestinese. “Sembra che i terroristi abbiano cercato di penetrare in un grande allevamento di polli vicino a Nir Am, probabilmente scambiando la sua recinzione per la recinzione del kibbutz”, ha dichiarato Ami Rabin. Sentiti i primi spari è scattata la difesa. “Siamo stati vigili, preparati ed efficaci, ma siamo stati anche molto fortunati”. Nessuno dei residenti è rimasto ferito, due attentatori sono stati uccisi. Fallito anche l’attacco al moshav (raggruppamento di fattorie di proprietà individuale con estensione fissa e uguale per i suoi membri) di Ein Habsor. Dove hanno respinto un numero soverchiante di terroristi: “Dobbiamo tutto alla sorveglianza, ed in parte al miracolo”.

Israeliani abituati a convivere con l’emergenza della violenza. Nel 2013 nel moshav di Netiv Ha’Asara, alla vigilia delle elezioni che consacrarono l’ascesa di Netanyahu, ci raccontarono che “non di rado prima senti il botto del razzo e poi la sirena”. Questi centri periferici, per lo più composti da villette familiari, lunghi viali alberati, bambini che scorrazzano in bicicletta e auto elettriche per muoversi al suo interno, non sono solo vulnerabili ai razzi, che ti possono piovere in salotto in qualunque istante del giorno e della notte, ma anche ai tunnel che partono da Gaza e sbucano nel giardino di casa. Tunnel che Hamas scava minuziosamente dal 2014, per far entrare i suoi uomini. A volte scoperti e fatti saltare dall’esercito israeliano prima di essere utilizzati, altre, come in questo caso, no.
Nonostante la minaccia che incombe su quelle terre – dal momento che scatta l’allarme missilistico ci sono circa 4 secondi per raggiungere un luogo protetto, stanza blindata o rifugio – molti giovani hanno optato per questo standard di vita. Una sorta di riscoperta delle radici del kibbutz di fronte alla crisi economica, ambientale e culturale, in risposta all’individualismo imperante nella nostra società. Siamo certi che il mito del kibbutz resisterà anche a questa dura prova.

IL DESTINO MANCANTE

Come spesso abbiamo scritto, se siamo arrivati a questo punto, purtroppo, è perché gli accordi di pace di Oslo del 1993 sono sepolti da tempo, fagocitati dalla storia e rimossi dalla memoria collettiva.
Dopo il vertice di Camp David del 2000, conclusosi con un nulla di fatto, e dopo la parentesi del disimpegno, unilaterale, di Sharon da Gaza nel 2005, di dialogo per raggiungere una soluzione di due stati limitrofi indipendenti ed in pace non c’è traccia concreta.
A prevalere, nel corso degli anni, è stato l’appiattimento ad un quadro politico dove tutto lascia pensare all’eterno conflitto del Medioriente come qualcosa che possa solo inasprirsi ed autoalimentarsi all’infinito.
Il ciclo della violenza, seppur inaspettato, è una costante di quel lembo di terra. Che si porta dietro il fallimento di due classi politiche, quella di Abu Mazen (e prima di Arafat) ormai screditato agli occhi dei palestinesi e quella di Benjamin Netanyahu, sul bilico della doppia catastrofe, strategica e di popolarità.
Mr Sicurezza, come si è presentato più volte nel corso delle tante campagna elettorali, è oggi un leader che rischia di perdere definitivamente consenso e fiducia, che sino a ieri sembrava scalfibile solo dalla contestata riforma della giustizia.
Con questo attacco terroristico Hamas ha dato prova di forza nei confronti di un nemico superiore in tutto, e allo stesso tempo ha definitivamente messo in secondo piano il ruolo e il potere dell’ANP, ergendosi ad unico paladino della causa. Ha così riportato al centro dell’attenzione diplomatica e mediatica la “questione palestinese”, non nel suo insieme ma nella sua forma deleteria.
Quale è il calcolo di avere un numero di ostaggi in pugno? È una mossa per ridurre o frenare la reazione di Israele? Non ci pare proprio.
L’idea di Hamas è di aumentare il proprio peso in una futura trattativa? A questo punto ogni schema di compromesso con i terroristi è irrealistico.
Il messaggio che Hamas ha voluto dare nasconde la dimostrazione e la minaccia che Israele è e sarà sempre vulnerabile? Beh, è decisamente probabile.
E poi, Hamas ha voluto avvertire quella parte di mondo arabo che ha imboccato un percorso di “normalizzazione” dei rapporti con Israele, “invitandoli” a non proseguire nella strada aperta dagli accordi di Abramo? Nel teatro geopolitico ci sono tante strumentalizzazioni, troppe sfaccettature sia interne che esterne si mescolano e intrecciano.
Quello che appare evidente è che i palestinesi sono lo strumento di attori interni, Hamas in primis, ed esterni, che spesso nascondono altri fini, ad esempio la Turchia (con Erdogan che aspira ad essere riconosciuto simbolo dell’orgoglio musulmano) e l’Iran (che mira all’egemonia nella regione e alla distruzione di Israele).
Dall’altro lato del muro gli israeliani pagano il caos di un esecutivo con una forte componente di nazionalisti razzisti, incompetente e totalmente inefficiente.
Scrive Avi Mayer sul quotidiano israeliano Jerusalem Post: “La dottrina della sicurezza del Paese dovrà essere rivista e le sue capacità adeguate ad affrontare la minaccia rappresentata da Hamas e dalla rete dei gruppi terroristici. Allo stesso tempo, un riallineamento politico accelerato dalla formazione di un governo di unità di emergenza potrebbe avere un impatto sulla politica interna per gli anni a venire. L’effetto che questo avrà sulla nostra psiche collettiva e sulla nostra coscienza condivisa, sul nostro stesso senso di sicurezza e sulla nostra fiducia nella nostra capacità di vivere liberamente e in sicurezza in questa terra – sarà sentito per decenni se non generazioni. L’intera portata della catastrofe è, ancora, sconosciuta, ma una cosa è chiara: gli eventi del 7 ottobre 2023 – uno dei giorni più bui della storia del paese – cambieranno tutto. Questo è l’11/9 di Israele. Niente sarà più come prima”.
Ancora una volta alla base dell’infinita disputa israelo-palestinese c’è l’inganno del pretesto.

CULTURA SBAGLIATA

Nel conflitto israelopalestinese sono dibattute questioni “sociali” che, alimentate dalla politica e dall’ideologia, assumono aspetti culturali eticamente distorti. Uno dei tanti esempi è il Fondo dei Martiri dell’Autorità nazionale palestinese, il programma di sostegno economico ai palestinesi imprigionati, feriti o uccisi da Israele e destinato alle loro famiglie: stimato in 350 milioni di dollari l’anno. Ufficialmente introdotto dal governo di Ramallah nel 2004, in piena Seconda Intifada, questa tipologia di finanziamento era già in uso nei campi profughi del Libano tra i combattenti di Fatah, a partire dagli anni ’70. E poi successivamente riproposto nelle campagne politiche di assistenzialismo gestite da Hamas, nel nome della beneficenza islamica. E proprio su questo banco di prova con gli avversari politici che prima Arafat e dopo i suoi successori hanno deciso di alzare il piatto della bilancia della propaganda.
Con un provvedimento del 2013 il sistema di welfare palestinese garantisce ai prigionieri (attualmente nelle carceri israeliane sono quasi 5mila) l’automatico impiego negli apparati istituzionali al loro rilascio. Inoltre, l’Autorità palestinese stabilisce un sistema “proporzionato” di compenso, dove i prigionieri ricevono maggiori finanziamenti in base alla durata del periodo di detenzione, e quindi parallelamente alla gravità del crimine commesso. Più vittime fai e più soldi ricevi (l’accusa). Dal punto di vista palestinese tale misura viene legittimata, e motivata, nel dare pieno sostegno “alla lotta contro l’occupazione e l’ingiustizia israeliana”. In un contesto dove è noto che l’esercito israeliano effettua arresti arbitrari di palestinesi (non ultimo ed eclatante l’episodio dell’italopalestinese Khaled El Qaisi, da giorni recluso in cella), che sono soggetti alla legge militare israeliana e privati dei diritti garantiti da quella civile di Israele. Il contraltare palestinese è lo schema di sussidi previsto per i terroristi. I quali, pur macchiandosi di crimini contro civili inermi, possono beneficiare dell’assistenza sociale. Questo elemento, non di poco conto, si porta dietro il soprannome dato al programma: “pay-for-slay”. Ovvero, un incentivo, secondo i critici, ad ammazzare gli israeliani.
“Indipendentemente dal suo vero scopo, non è esatto caratterizzare il Fondo dei Martiri esclusivamente come un mezzo per incoraggiare il terrorismo contro Israele. Contrariamente a quanto potrebbe affermare il primo ministro Netanyahu, non tutti i beneficiari degli aiuti del Fondo dei Martiri sono terroristi”. Alex Lederman in un articolo pubblicato da Israel Policy Forum, sottolinea che: “Non tutti i palestinesi nelle carceri israeliane hanno o intendono avere le mani sporche di sangue israeliano”. Restano comunque i gravi errori commessi ripetutamente dall’Autorità palestinese e dal suo presidente. Non dimentichiamo che il budget del cosiddetto Fondo Martiri proviene oltre che dai regimi arabi anche dai poco informati e talvolta distratti contribuenti occidentali.
Sono invece qualche migliaia e molto convinti coloro che hanno donato oltre 1,2 milioni di shekel alla campagna di crowdfunding lanciata per chiedere la liberazione di Amiram Ben Uliel, estremista di destra e colono israeliano giudicato colpevole di aver compiuto nel 2015 un attentato terroristico incendiario nel villaggio di Duma, a sud della città di Nablus, costato la vita a tre palestinesi membri della famiglia Dawabsha (madre, padre e figlio di 18 mesi). Recentemente 14 parlamentari della maggioranza di governo, per lo più aderenti ai partiti Likud e Otzma, hanno fatto appello al capo dello Shin Bet Ronen Bar per far allentare le sue condizioni di detenzione all’ergastolo (per diritto di cronaca Ben Uliel si professa innocente e dichiara di aver confessato sotto tortura). In occasione delle festività di Rosh haShanah è stato approvato il temporaneo trasferimento di Ben Uliel dall’isolamento all’ala dedicata ai religiosi (Torah wing). Un piccolo trattamento di favore, che vista la composizione dell’attuale governo di Netanyahu potrebbe non essere l’unico.
Crowdfunding per un pericoloso eversivo israeliano o fondo per i martiri della jihad palestinese, non sono un bel segnale di pace. Del resto se Abu Mazen e Bibi Netanyahu, partecipando ai lavori dell’assemblea plenaria delle Nazioni Unite, hanno parlato dallo stesso microfono scambiandosi reciproche accuse, si sono seduti nella stessa aula e non si sono stretti la mano, quasi sfiorati e prudentemente evitati. È chiaro che sul tavolo non c’è nessuna reale intenzione di dialogo.

IRRAGIONEVOLEZZA

Pochi giorni fa tutti i 15 giudici della Corte Suprema di Israele, cosa mai successa in precedenza, si sono riuniti in udienza preliminare per decidere, sulla base delle petizioni presentate, se il recente emendamento alla clausola di ragionevolezza approvato dal governo sia o meno da annullare. Ci potrebbero volere mesi prima che il verdetto sia emesso. Materia spinosa, per due ragioni: una strettamente politica e l’altra puramente giuridica. In mezzo una crisi che da mesi spacca in due il paese. La norma introdotta lo scorso 24 luglio è parte integrante della controversa riforma della giustizia avanzata dall’esecutivo di Netanyahu e volta a depotenziare i poteri stessi del tribunale di stato: «Nonostante quanto stabilito in questa legge fondamentale (sezione 15), coloro che detengono poteri giudiziari per diritto, compresa la Corte Suprema quando presiede come Alta Corte di Giustizia, non discuteranno la ragionevolezza delle scelte prese dal governo, dal primo ministro o da qualsiasi altro ministro, e non emetteranno provvedimenti al riguardo. In questa sezione, “decisioni” si riferisce a qualsiasi decisione presa, comprese quelle relative alle nomine, o disposizioni di astenersi dall’utilizzare determinati poteri». Tolta la “ragionevolezza” di segnalare e impedire scelte arbitrarie, irrazionali, immotivate per assurdo anche un cavallo potrebbe domani rivestire un alto ruolo istituzionale. A gennaio i giudici hanno dichiarato la nomina a ministro di Aryeh Deri, penalmente condannato e criminale seriale, irragionevole e invalida. Ebbene, quello stop “morale” non è più così scontato. D’altro canto, non è mai accaduto che la Corte Suprema abbia abrogato uno dei principi fondamentali o invalidato un emendamento correlato a tali leggi. Sebbene abbia stabilito in più occasioni di avere l’autorità per farlo. Scrive il Jerusalem Post in un recente editoriale: «In effetti, se alla Corte fosse impedito di annullare Leggi Fondamentali o loro emendamenti, allora qualsiasi governo potrebbe approvare qualunque legge gli venisse in mente qualificandola come “Legge Fondamentale” e precludendo così qualsiasi controllo giurisdizionale. Si tratta ovviamente di una situazione insostenibile. Altrettanto insostenibile è che un governo non presti ascolto alla Corte Suprema. Non solo è insostenibile, ma spalancherebbe le porte all’anarchia, a una situazione come quella descritta nel Libro dei Giudici quando “ognuno faceva come gli pareva” (21:25). Se il governo non dà ascolto alla decisione della Corte, perché dovrebbe farlo chiunque altro? La democrazia poggia su diversi pilastri e uno dei pilastri centrali è la supremazia della legge. Se i ministri del governo non riconoscono la supremazia della legge, allora non ci sono più regole del gioco. E se non ci sono regole del gioco, alla fine potrebbe non esserci più nessun gioco. Riconoscere la supremazia della legge significa farlo anche quando la legge non ti è favorevole. Nel 1979 l’allora primo ministro Menachem Begin (del Likud) diede voce a questo sentimento quando, a seguito di una decisione della Corte Suprema contraria all’insediamento di Elon Moreh – in cui Begin credeva con tutto se stesso – disse (parafrasando il mugnaio di Potsdam ndr): “Ci sono dei giudici a Gerusalemme”. Con questo intendeva dire che ci sono i giudici e che le loro decisioni devono essere rispettate. Durante un’accesa riunione di gabinetto dopo la sentenza della Corte, alcuni membri del governo Begin chiesero che si ignorasse la decisione. Begin, tuttavia, era categoricamente in disaccordo e dichiarò: “I tribunali in Israele hanno preso la loro decisione e il governo è obbligato a onorare ed eseguire qualunque cosa abbiano deciso”. Ciò che era così chiaro per Begin dovrebbe essere altrettanto chiaro per Netanyahu. Ciò che era vero allora è altrettanto vero oggi».

Sì, ma Netanyahu non è Begin. I tempi sono cambiati e il Likud del nuovo millennio è al governo con quelli che l’allora storico leader della destra e fondatore del partito, disprezzava profondamente, perché pericolosi fascisti.

Nella tradizione yiddish si narra di un piccolo e remoto shtetl dove un calzolaio aveva commesso un omicidio. Il giudice condannò l’imputato alla pena di morte. Ma prima che la sentenza venisse applicata i cittadini contestarono la condanna, non essendoci nella comunità un altro che lo potesse sostituire nel mestiere di ciabattino. Preso atto dei malumori della gente il giudice tornò sulla propria decisione: «Prendendo in considerazione che lasciare la città senza calzolaio non è possibile, e la condanna emessa deve essere eseguita, non resta che impiccare uno dei due sarti, in modo che possiate continuare ad avere un sarto e un calzolaio.» Alla lettura della nuova sentenza gli abitanti dello shtetl esultarono: «Non esistono giudici più intelligenti del nostro!». In Israele oggi c’è una sola democrazia seppur malmessa, e due potenziali governi. Quello attuale di estrema destra può essere “sacrificato” lasciando il posto ad una alternativa maggioranza di destra. Forse, sarebbe una mossa intelligente, se non si vuole abbattere il sistema e creare maggiore caos.

FRITTATA FATTA!

L’intrigo internazionale di Roma, sui colloqui diplomatici tra Libia e Israele, invece di una nuova pagina di storia si è rivelata una frittata all’italiana. La notizia, che avrebbe dovuto essere mantenuta segreta, dell’incontro tra i rappresentati degli esteri israeliano e libico, avvenuto durante un vertice alla Farnesina, ha prodotto una valanga di reazioni, contrarie. Investendo la Libia, attraversata da violente manifestazioni di protesta. Scoppiato il caos la prima poltrona a saltare è stata quella della ministra degli esteri Najla al-Mangoush, sospesa e costretta a lasciare, per motivi di sicurezza, il paese. La Mangoush considerata una delle personalità più accreditate dell’esecutivo presieduto da Abdul Hamid Dbeibah, governo riconosciuto dall’Italia e appoggiato militarmente dalla Turchia, è finita triturata dall’episodio che l’ha vista protagonista assieme all’omologo israeliano Eli Cohen. A poco è servita la difesa dell’ex ministra, che ha parlato di una riunione del tutto casuale, ribadendo l’assoluto rifiuto alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Come prevede la legge libica.

La posizione della Mangoush è sembrata compromessa da subito, con il premier Dbeibah che l’ha abbandonata al suo destino, prendendo le distanze, mentre montava l’accusa di tradimento, oggetto di una indagine in corso. Le ragioni del patatrac sono state le esternazioni pubbliche del ministro Cohen, che ha spifferato: “abbiamo parlato del grande potenziale delle relazioni tra Israele e Libia”. Nel raccontare alla stampa, quello che teoricamente era confidenziale, l’esponente del Likud (molto vicino a Netanyahu) è sceso nei particolari. Confermando al centro della discussione (durata un paio di ore) vari punti: la questione umanitaria, l’agricoltura, la gestione delle risorse idriche e l’importanza di preservare il patrimonio ebraico in Libia, compresa la ristrutturazione di sinagoghe e cimiteri. Apriti cielo. Nel tentativo di mettere una toppa e salvare l’immagine del primo ministro libico è stata sacrificata la Mangoush, che paga indubbiamente il fatto di essere donna. Per quanto sia lei che Cohen non abbiano commesso nulla di ignobile, anzi. È infatti cosa stranota che ci sono stati contatti tra i due paesi del Mediterraneo sin dai tempi, gli ultimi, del regime di Gheddafi. A novembre del 2021 in ritorno da Dubai Saddam Haftar, figlio del signore della guerra Khalifa, ha fatto sosta a Tel Aviv. L’anno successivo il jet privato di Haftar si è trattenuto per oltre un’ora nella pista del Ben Gurion Airport, prima di decollare per Cipro. Non c’è conferma che a bordo ci fosse il generale cirenaico. Comunque, in entrambi i casi i voli portavano un chiaro messaggio di richiesta di assistenza “militare e diplomatica”, in cambio di un impegno a normalizzare le relazioni con lo stato ebraico. Formalmente Israele, fino ad oggi, ha evitato di prendere una posizione sulla guerra civile libica. Prudenza a parte Israele è considerato molto vicino all’Egitto e quindi, pro-Haftar. Ciononostante, si parla con insistenza, e alta probabilità, di un abboccamento ad Amman tra Dbeibah, che nega, e il capo del Mossad David Barnea, che non commenta.

In questa vicenda, che ha screditato solo la Mangoush, non hanno fatto una bella figura sia Dbeibah che Cohen. Il danno provocato dall’attuale capo della diplomazia del peggior governo di sempre di Israele, quello dell’alleanza tra Netanyahu e l’estrema destra, è quanto mai palese. Dai banchi dell’opposizione Yair Lapid non usa mezzi termini: “dilettantismo irresponsabile” e “vergogna nazionale”. Merav Michaeli leader dell’Avodà invoca le dimissioni. L’ex capo di stato maggiore e fondatore di “Blu e Bianco”, Benny Gantz parla di negligenza fallimentare del governo di Netanyahu. Dalla maggioranza della Knesset, almeno questa volta, nessuna voce. Per quanto riguarda Dbeibah ha dato prova di essere debole e poco affidabile. Quando a gennaio scorso il direttore della CIA William Burns gli ha posto vis-à-vis la questione dell’apertura ad Israele si è astenuto. E del resto appare del tutto improbabile che il premier libico non fosse a conoscenza di quanto bolliva in pentola. È facile presumere che abbia autorizzato, e coordinato, la missione romana. Per poi tirarsi fuori a frittata fatta.

IL COMPLESSO DI CAINO

E l’Eterno disse a Caino: “Dov’è tuo fratello Abele?”, ed egli rispose: “Non lo so; sono forse il guardiano di mio fratello?” (Genesi 4,9). L’ong statunitense J street e la fondazione Kohelet, con sede a Gerusalemme, sono “figli” dello stesso diritto: Israele casa per gli ebrei. Hanno, tuttavia, due visioni inconciliabili sul piano del modello di stato sionista (o post) da conseguire. Schierati su campi opposti per determinare, in una battaglia cruciale e non solo culturale, le sorti di Israele. In una sfida ideologica tra allergici alla sinistra e demonizzatori della destra, pro Bibi e anti Netanyahu, tifosi della riforma della giustizia e contrari alla sua introduzione, nazional-religiosi e laici progressisti, Caino e Abele.

J Street, a cui aderiscono vari membri del Congresso di Washington, incarna l’idea che solo una risoluzione negoziata tra israeliani e palestinesi possa soddisfare le legittime esigenze ed aspirazioni nazionali di entrambi i popoli: “Crediamo che il popolo palestinese, come il popolo ebraico, abbia il diritto ad una nazione democratica, che vivano fianco a fianco in pace, libertà e sicurezza. E che – i palestinesi – meritano pieni diritti civili e la fine dell’ingiustizia sistemica dell’occupazione”. In sintesi, la posizione espressa è appunto quella dei raggiungere il compimento di due stati sovrani, della pace in cambio di terra e la fine dell’occupazione. Al momento, si mantengono sulla strada che appare più impervia da percorrere, quella tracciata da Rabin e Shimon Peres.

Il Kohelet Policy Forum è invece un think-tank che si definisce apartitico, premuroso di dedicarsi alla promozione dei valori della libertà individuale e del libero mercato, di Israele come stato-nazione del popolo ebraico (di cui hanno architettato l’architrave giuridico) e della democrazia rappresentativa (in senso populista). La matrice di base del loro pensiero è il conservatorismo religioso. È ormai largamente acquisito che dietro alla contestata revisione del sistema della giustizia, che ha spaccato il paese, ci sia il loro disegno di legge di depotenziamento dei poteri della Corte Suprema: «Non siamo stati noi a prepararlo, ma il Kohelet Forum», ha dichiarato durante un’intervista a Channel 13 Keti Shitrit, parlamentare del Likud. Progetto che ha preso immagine nell’attuale esecutivo di Netanyahu.

Il refrain della critica a J street è rimasto pressoché inalterato da quello espresso da Seth Mandel, in un editoriale del 2011 sul mensile Commentary: «A differenza dei veri moderati, che occupano la terra di mezzo, questi “moderati” sono persone che non hanno principi, esistono solo per togliere consenso e la cui ragion d’essere è opporsi a qualsiasi cosa venga praticata da quelli di cui non si fidano. Questo è sempre stato il caso di J Street, un’organizzazione fondata semplicemente attaccando l’infrastruttura esistente del sostegno filo-israeliano, adoperando termini politici rozzi e iper-partigiani». A sua volta il giudizio rivolto al Kohelet non è meno negativo, così Yofi Tirosh docente dell’Università di Tel Aviv: «Sta rompendo il delicato equilibrio tra l’Israele tradizionale e gli ultra-ortodossi». L’obiettivo dei nuovi intellettuali di destra sarebbe di riscrivere completamente lo stile di vita degli israeliani, favorendo coloro che «sono convinti che l’ostacolo alla venuta del messia venga dalla violazione dello Shabbat o dal fatto che le donne indossino un abbigliamento non consono». Kohelet è un collettore che centrifuga maschilismo, sciovinismo, razzismo e messianesimo. Numericamente godono della possibilità di legiferare a proprio piacimento in parlamento. Dove affiliazioni più estremiste invocano la creazione di una milizia privata, il taglio dei fondi alle municipalità arabe, la distruzione di villaggi palestinesi, il divieto a sventolare la bandiera palestinese e la discriminazione di genere nei luoghi pubblici. Impongono dettami nello Shabbat (soprattutto nei trasporti), nei cibi (kosher) e nell’educazione. Difendono il vandalismo dei pogrom contro gli arabi e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Il loro peccato originale è proverbialmente l’istinto di Caino che li pervade, spingendoli a cancellare gli assetti fondanti della democrazia, di cui ciascuno a suo modo è guardiano.

BIBI E LA STRATEGIA SOVRANISTA

Che cosa può fermare Benjamin Netanyahu dal suo attacco diretto alla democrazia di Israele? A questa domanda si può rispondere in vari modi. Quella più spontanea è che solo lui è in grado di evitare il disastro dell’abisso dei valori dei padri fondatori, fermando la riforma della giustizia che non ha l’obiettivo di riequilibrare gli assetti tra i poteri dello Stato ma quello di scardinare l’intero sistema di controllo della Corte Suprema su esecutivo e parlamento.
In pratica una vera e propria rivoluzione che andrebbe ad amplificare il potere della maggioranza di governo. La seconda lettura degli eventi è che a questo punto il longevo premier appare prigioniero del suo stesso disegno. La decisione di formare una coalizione con l’estrema destra è risultata una mossa elettoralmente vincente, ma ha tuttavia finito per tramutarsi in un prezzo troppo alto da pagare. E ben presto Netanyahu ha dovuto subire le pressanti richieste, talvolta spudorate minacce, degli alleati. Concessioni che hanno messo in luce un leader debole come non mai.
L’errore del falco del Likud è stato quello di circondarsi di una corte di devoti yes man e poche donne. Oggi i sondaggi di gradimento sono impietosi sull’operato di questo governo. A criticare aspramente c’è una parte di Israele, che si è ribellata all’introduzione della nuova legislazione e da mesi scende in piazza: blocca l’aeroporto, ha marciato per 60km fino a Gerusalemme, e ha piazzato centinaia di tende difronte alla Knesset. Un’onda pacifica cresciuta nel tempo, che sventola la bandiera di Davide e si erge a difensore di diritti e libertà.
Il movimento pro-democrazia crede che il pericolo della deriva autoritaria e persino di una dittatura sia imminente. Alla protesta aderiscono interi settori della società, medici, riservisti dell’esercito, insegnanti, diplomatici, artisti, intellettuali etc. Sono ovviamente una spina nel fianco di Netanyahu, sono numerosi e determinati a non desistere nella loro lotta. Ciononostante, c’è anche una larga fetta dell’elettorato di destra che è ancora convinto della necessità di apportare modifiche sostanziali al sistema.
La ragione principale alla base di questo approccio è la riluttanza atavica agli apparati dello stato, perché considerati espressione di una élite, tendenzialmente manovrata dalla sinistra o riconducibile in vario modo ad essa. A prescindere da ciò che pensano, sbagliato o meno, il quadro odierno è di una nazione profondamente lacerata. A provocare questo danno, e qui non c’è nessun dubbio storico, hanno inciso tre decadi di martellante propaganda narrativa di Netanyahu, nel nome della paura. Che hanno radicalmente e persino subdolamente cambiato Israele.
Fino al punto che una società “polmone” di esperienze (e sofferenze) ha smesso di ossigenare il suo popolo. In Israele la democrazia per continuare a vivere deve prima di tutto trovare la sua ancora di salvataggio. C’è chi invoca la costituzione, di cui il paese è privo. Ma prima forse dovrebbe guardarsi dentro, e resettare l’era di Netanyahu.

IO BIBI E LE ROSE

In Medioriente questa settimana si prefigura calda, non è una novità. Le notizie di cronaca riportano dell’operazione militare israeliana lanciata su vasta scala a Jenin in queste ore. L’acceso dibattito politico dei passati giorni lascia il posto al diario di guerra, che si prende la scena.

Passa in secondo piano la testimonianza maratona, al processo che vede imputato il primo ministro israeliano per abuso d’ufficio, del magnate Arnon Milchan. Storia di un’amicizia che includeva una serie di omaggi ai Netanyahu, trasformatesi nell’arco del tempo in richieste regolari: «una routine». Talmente frequente che con i Netanyahu Milchan aveva messo a punto un codice per ciascuna tipologia di regali: i sigari pregiati chiamati “foglie” e “rose” erano le bottiglie di champagne, mentre alla richiesta di camicie di lusso corrispondeva il termine cifrato di “nani”. Il noto tycoon dell’industria cinematografica ha ammesso di aver incaricato uno dei suoi collaboratori di mettere a disposizione dei Netanyahu: «tutto ciò che vogliono». E di essersi reso conto, in seguito all’apertura dell’inchiesta, che i doni, per un valore stimato di 700mila shekel, erano diventati “eccessivi”. «A volte le foglie erano di mia iniziativa. Altre [Netanyahu] mi chiedeva: Ehi hai mica delle foglie a casa? E rose?». Milchan, che per motivi di salute partecipa all’udienza in remoto dall’Inghilterra, ha sottolineato di non aver commesso nulla di illegale e, soprattutto, di non essere mai stato obbligato. I magistrati invece ritengono che Netanyahu abbia fatto pesare le proprie influenze per far ottenere all’amico l’estensione della visa negli Stati Uniti, accusa smentita da Milchan. Il quale tuttavia ha potuto beneficiare della normativa introdotta nel 2013 dal governo Netanyahu sulle agevolazioni fiscali per i redditi all’estero dei cittadini israeliani, che la stampa ribattezzò laconicamente “legge Milchan”.

I problemi legali del leader del Likud sono intrecciati a doppio filo alla divisiva riforma della giustizia avanzata dal suo esecutivo. Una revisione del sistema giuridico concepita con l’esplicito intento di smantellare “l’ingerenza” della Corte Suprema sul potere politico. Progetto che non piace ad una larga fetta degli israeliani, che da ben 26 settimane è sul piede di guerra per impedire il suo concepimento. Manifestazioni partecipate nelle piazze e presidi sotto casa dei ministri. Insomma, una protesta persistente ed insistente che ha costretto Bibi a zigzagare nel procedere nel suo azzardato attacco alla democrazia, tra brusche frenate e repentine accelerate. Netanyahu intervistato dal Wall Street Journal ha manifestato l’intenzione di voler apportare delle modifiche alla proposta originale di riforma, confermando che la clausola di scavalcamento non sarà parte integrante del testo finale. Ma quale sia la reale evoluzione, o involuzione, della legislazione è incerto. Al punto che persino Bibi ammette di tastare con attenzione il polso della gente. Il passo indietro del falco della destra sarebbe quindi dettato da due ragioni pratiche: “mettere una pezza sul rapporto con l’opinione pubblica e gli Usa”, entrambi assai tesi. L’approccio conciliante di re Bibi, di fronte al malcontento generale, al richiamo del presidente Herzog e all’opposizione, apre una frattura nella maggioranza e nel partito del premier. «Alla fine, penso che affinché questo governo continui ad esistere dobbiamo portare avanti le riforme», ha commentato Miki Zohar, ministro della Cultura e considerato vicino al ministro della Giustizia Yariv Levin, ideatore della contestata legge. La parlamentare likudnik Tally Gotliv, che solo pochi giorni fa è uscita umiliata dal voto a scrutinio segreto della Knesset per la nomina a rappresentante nel Comitato di selezione dei giudici, è netta: «La riforma è morta». Anche l’alleato veterofascista Itamar Ben Gvir ha preso apertamente le distanze: «Siamo stati eletti per portare il cambiamento. La riforma è una pietra angolare di questa promessa». Ancora più critica l’ala del partito askenazita dei religiosi ortodossi: «Ho chiesto a nome dell’UTJ che la riforma includesse i tre impegni stipulati: lo studio della Torah, la clausola di esclusione e la modifica della legge sul servizio di leva. Ogni altro accordo è inaccettabile», così Meir Porush ministro degli Affari di Gerusalemme.

Fatta eccezione per il conflitto con i palestinesi, in qualsiasi modo si muova, Bibi rischia di risultare un populista impopolare.